Van Wittel e Pitloo. Due olandesi a Napoli. Di solito si dice che il vedutismo sia nato a Venezia, grazie al Canaletto. Un genere pittorico che rivoluzionò la pittura che fino alla fine del Seicento aveva trascurato i paesaggi urbani, a favore di un naturalismo agreste più adatto a scene mitologico-allegoriche o storiche. Una natura intesa quale mero fondale delle scene rappresentate, paesaggi-sfondo che non avevano riferimenti topografici riconoscibili, quasi sempre dovuti alla fantasia dell’artista.
La nascita del vedutismo in Italia
Certamente il Canaletto (1697-1768) ebbe il grande merito di rappresentare le vedute veneziane per la prima volta con ampia resa prospettica. Grazie all’unione tra architettura urbana e luce naturale , i suoi dipinti sono il risultato di una piena visione razionalistica della realtà (non a caso siamo in pieno Illuminismo). Unione tra arte e tecnologia dell’epoca grazie anche al sapiente uso della prospettiva nonché della camera ottica, strumento che andava diffondendosi proprio in Olanda.
Ma consideriamo che molto prima della sua nascita, l’olandese Gaspar Van Wittel (1653-1736) era già arrivato in Italia, a Roma (nel 1674) città preferita a quell’epoca da molti pittori olandesi.
Successivamente sarebbe venuto a Napoli restandovi dal 1699 al 1702. Dunque il vero caposcuola del vedutismo in Italia è proprio Van Wittel, e questo dato solo recentemente è stato riconosciuto dagli storici dell’arte. L’olandese tra l’altro lavorò anche a Venezia, dunque Canaletto sicuramente apprese da lui.
Le sue impareggiabili vedute sono rese con una tecnica panoramica che potremmo definire fotografica, che tuttavia non va mai a scapito della precisione dei dettagli. Non è da escludere che la minor fama del Van Wittel rispetto al Canaletto sia anche legata al fatto che suo figlio Luigi sarebbe diventato così celebre, come architetto, che a lungo ne avrebbe oscurato la fama.
A circa un secolo di distanza un altro artista olandese avrebbe operato a Napoli. Tuttavia vi sono grosse differenze tra il vedutismo del Van Wittel e quello di Pitloo. Vediamo in breve quali sono.
Gaspar Van Wittel a Napoli
Van Wittel ( nome poi italianizzato in Gaspare Vanvitelli) fu artista molto ricercato dalle famiglie nobili romane (Colonna, Albani, Odescalchi ) grazie alla cui influenza nel 1711 divenne membro dell’Accademia di San Luca. A Roma, dove risiedeva una nutrita colonia di pittori olandesi, fu anche ammesso come socio alla loro Compagnia chiamata “de Toorts” (La Torcia).
Aveva appreso le tecniche del vedutismo in Olanda dal suo maestro Mattia Withoos (nella città natale di Amersfoort) artista che a sua volta aveva acquisito i colori dei paesaggi italiani durante il suo soggiorno in Italia dal 1648 al ’50.
Pur avendo lavorato anche nel Nord e nel Centro Italia (Lombardia, Venezia, Bologna, Urbino) tranne una puntata a Messina, diventerà famoso in vita e poi dopo la morte sopratutto per la sua vedute romane e napoletane. Non a caso queste opere sono anche quelle che valgono maggiormente sul mercato.
Gaspare “degli occhiali”
Veniva soprannominato anche Gaspare “degli occhiali” per i problemi di vista che a un certo punto iniziarono ad affliggerlo (soffriva di cataratta, all’epoca incurabile) costringendolo a usare gli occhiali. Nonchè per l’uso della camera ottica ( altra tecnica che Canaletto deve a lui) per eseguire con minuzia i particolari delle scene urbane.
Dipinse prevalentemente tele di grande formato. Sia perchè più adatte al suo tipo di pittura di ampio respiro e sia perchè i suoi committenti erano prevalentemente nobili che arredavano con le sue opere le loro dimore romane
Fu il Vicerè spagnolo Luigi Francesco de la Cerda, duca di Medinaceli, ambasciatore a Roma, a chiamare Van Wittel a Napoli. E Gaspar per ricambiarlo chiamò Luigi suo figlio, nato dalla nobildonna romana Anna Lorenzani nel 1700. Un figlio che sarebbe diventato il celebre architetto della Reggia di Caserta e avrebbe oscurato la fama del padre.
Il Vicerè gli commissionò una serie di vedute di Napoli e del Regno che in parte andarono ad abbellire Palazzo Reale e in parte le dimore private dei nobili.
La tomba di van Wittel a Roma
Restò a Roma sino alla morte, e la sua tomba si trova nella Chiesa di S.Maria della Vallicella. Gaspar van Wittel morì il 13 settembre 1736. Si era da poco trasferito dall’attuale via Sistina a Campo de’ Fiori. Dapprima fu sepolto nella Chiesa di San Lorenzo in Lucina, ma dopo sei anni fu spostato per volere dei figli in una prestigiosa tomba a Santa Maria in Vallicella, dinanzi al cui altare maggiore è tuttora posta una lapide marmorea dedicata a Gaspari Vanvitellio Ultraiectensi, l’olandese diventato .italiano
Anton Sminck Van Pitlo(o)
Il suo nome esatto era Anton Sminck Pitlo, ma a Napoli aggiunse una seconda «o» per sottolineare l’origine non italiana.
Nato ad Arnhem in Olanda nel 1790, dopo essere stato allievo dell’ acquarellista H.J. van Ameron, Pitloo si recò prima a Parigi e poi nel 1811 a Roma, beneficiando per lungo tempo di una borsa di studio. Dopo la caduta di Bonaparte, il sussidio fu revocato e venne inviato a Napoli presso il conte russo Gregorio Orloff, diplomatico ed estimatore d’arte.
Dopo vari viaggi compiuti tra Italia ( Roma, Sicilia) e Svizzera convolò a nozze con Giulia Mori nel 1818, e prese dimora nel quartiere Chiaia di Napoli
A differenza del suo illustre predecessore e compatriota, Pitloo dipingeva anche per i viaggiatori del Grand Tour. Ciò spiega come , rispetto a Van Wittel che prediligeva formati medio grandi per i suoi dipinti, Pitloo realizzò numerose opere di piccolo formato. Sono scorci di particolari del territorio compreso tra Roma e Napoli, non sempre facilmente riconoscibili ma di grande suggestione. Oltre a scorci del Golfo partenopeo, e ancora più a sud fino a Paestum.
Rispetto a Van Wittel dunque , Pitloo non fu mai un pittore di corte. Diverse opere di piccolo formato erano appunto concepite proprio per acquirenti meno facoltosi.
A lui si deve la tecnica dell’olio su carta riportata su tela. In tal modo i colori assumevano una tonalità a metà tra olio e tempera. Una caratteristica morbida luce, sfumata e avvolgente, tendente al giallo oro, pervade molti suoi dipinti, come se fossero illuminati da un sole calante. Ben diversa dalla tersa luminosità di van Wittel.
Pitloo e la Scuola di Posillipo
Due anni dopo aprì una scuola privata di pittura. A differenza di Van Wittel, più che le vedute urbane lo interessavano i paesaggi ricchi di tonalità calde e soffuse.
La sua interpretazione personale delle vedute del Golfo di Napoli, di gusto ormai romantico molto diverso dalla precisione miniaturale del vedutismo di Van Wittel, accrebbero la sua fama. Non fu lui che la chiamò così , ma dopo la sua morte gli storici dell’arte lo avrebbero ritenuto il caposcuola di una nuova corrente artistica, cosiddetta Scuola di Posillipo.
Vi appartennero molti allievi e seguaci di Pitloo, destinati a diventare famosi. Giacinto Gigante, Salvatore Fergola, Teodoro Dùclere, Achille Vianelli, Consalvo Carelli. Solo per fare qualche nome.
Nel 1822 Pitloo ricevette la nomina di Professore Onorario presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli e due anni dopo ebbe la cattedra di paesaggio presso la medesima accademia Morì il 22 giugno del 1837 durante un’epidemia di colera. Fu sepolto a Napoli, nel Cimitero dei Protestanti detto anche degli Inglesi, tra Corso Garibaldi e via Arenaccia, a fianco della Chiesa di S.Maria della fede. Ma la vicenda della sua tomba ha dell’incredibile
L’incredibile vicenda della tomba di Pitloo a Napoli
A partire dagli anni settanta il Cimitero versava in condizioni pessime, abbandonato all’incuria e alle erbacce. Il Consolato Inglese aveva intenzione di cedere il suolo, ma alcuni assistenti del Professore Adrian Pitlo, pronipote dell’artista e docente all’Università di Amsterdam, si misero in macchina e vennero a Napoli con la loro station wagon.
Una volta arrivati , penetrarono senza permesso nel Cimitero e staccarono i pezzi della tomba abbandonata al degrado. Caricatili in macchina ripartirono per l’Olanda. Arrestati ad Aosta furono recuperati i pezzi superstiti della tomba.
Ma dato che il Cimitero versava in pessime condizioni. la Soprintendenza decise di trasferirli nel 1980, nei depositi del museo di San Martino. E lì rimasero per quasi trent’anni. a lungo dimenticati. E lo sarebbero stati ancora per molto.
Tuttavia la storia ha avuto un lieto fine grazie al medico Giuseppe Guerriero, dermatologo originario di Avellino, esperto conoscitore dell’artista. Il quale aiutato nella ricerca dalla storica Antonella Orefice, rintracciò i marmi superstiti nel deposito del Museo :due epigrafi in marmo e un busto, dello scultore Pasquale Ricca.
A questo punto i promotori dell’iniziativa riuscirono a finanziare il progetto di un nuovo monumento in cui ricollocare i pezzi dell’originale perduto. Partendo dallo studio di un disegno del 1860, riproducente l’antica tomba smembrata, hanno ridato finalmente una dignità alla tomba di un grande artista che onorò Napoli e che proprio non meritava , al posto di una corona di alloro, di finire avvolto da una corona di erbacce.