Il 14 aprile 1982, a Roma, in un’aula bunker, ha inizio il secondo processo Moro contro 63 brigatisti.
Gli imputati del processo sono considerati gli eversori responsabili del rapimento e dell’uccisione del leader democristiano, Aldo Moro.
Il caso Moro
La denominazione caso Moro sta ad indicare l’insieme di dinamiche che hanno dato vita al sequestro, alla prigionia e alla morte del politico Moro.
Da quel momento, tantissime ipotesi e molteplici ricostruzioni dell’evento si sono sovraffollate nelle menti degli italiani e sulle pagine dei quotidiani nazionali.
I fatti
La mattina del 16 marzo 1978, mentre il governo Andreotti si installava al Parlamento per ottenere la fiducia, l’auto di Moro fu intercettata e fermata da un nucleo delle Brigate Rosse.
In pochi attimi, l’intera scorta del politico perì, a causa dei colpi delle arme automatiche utilizzate dalla banda.
Dopo aver tenuto in cattività il presidente della democrazia cristiana, per circa 55 giorni, e averlo sottoposto a un processo da parte di un tribunale capeggiato dai brigatisti stessi, il nucleo di terroristi assassinò Moro.
Il movente sembra essere stato il rifiuto di questi alla richiesta di uno scambio di prigionieri con lo Stato.
Tuttavia, ancora oggi non sono chiare tutte le reali motivazioni che, nel corso degli anni e dei vari processi, sono andate via via emergendo.
Il corpo, privo di vita, del presidente riapparve a Roma, in via Caetani, il 9 maggio, all’interno del bagagliaio di una Renault 4 rossa.
Le conseguenze giudiziarie
Pochi giorni dopo il drammatico avvenimento, le forze dell’ordine diedero il via a una serie di arresti di brigatisti coinvolti nell’attentato.
A partire da quei giorni, si tennero diversi processi giudiziari che ebbero fine solo nella seconda metà degli anni novanta (1996).
Fra questi, il processo ribattezzato Moro-bis che ebbe luogo nel mese di aprile di 38 anni fa.
Il processo Moro-bis
Il secondo processo, concernente il caso Moro, ha dunque luogo a Roma, presso il Foro Italico, in un rifugio blindato, costruito per l’occasione.
Il giudice è Antonino Abbate, il pm si chiama Niccolò Amato.
Fra i brigatisti, ritroviamo parecchi pentiti, ma il pubblico ministero non si lasciò impietosire e richiese 34 ergastoli e 100 anni di prigionia, per ogni membro lì presente.
Si procedette poi alla condanna di questi ultimi a 30 ergastoli e 316 anni di reclusione, così come stabilito dalla sentenza.
La vicenda però fece sorgere ancora dubbi riguardo a cosa fosse realmente accaduto quel fatidico giorno: non era ancora chiaro quanti parteciparono all’agguato, chi gestì la prigionia e chi sparò al presidente della DC.