Napoli ha una lunghissima storia di tradizioni popolari soprattutto legate a credenze, presenze sovrannaturali, come fantasmi, oppure mestieri, modi di dire e proverbi. Uno dei detti antichi, più appropriati per questo periodo è:
“Acqua ‘e maggio, parole ‘e sagge”
Ma cosa significa? La saggezza popolare, per quanto riguarda i fenomeni naturali, mostra tutta la sua infinita potenzialità. Capita spesso, infatti, che un breve detto, o una credenza tramandata da generazioni possa risultare molto più attendibile delle più sofisticate previsioni meteo.
Ad esempio tutti ci aspettiamo che nel mese di maggio le piogge siano meno frequenti dal momento che è alle porte dell’estate, eppure è quasi sempre così. Alla fine ci si trova a dar ragione ad un antico detto napoletano che recita “Acqua ‘e maggio, parole ‘e sagge”.
Letteralmente questo proverbio dice che l’acqua di maggio cade con la stessa frequenza con cui arrivano le parole di un uomo saggio. Nella tradizione contadina, questo detto si riferisce ad una persona saggia, la quale era una in grado di dare sempre consigli e sempre pronta ad aiutare con le sue parole.
Questo ci porta ad attribuire anche un secondo significato al proverbio: non ci si riferisce solo alla frequenza delle piogge, ma alla loro utilità. Infatti, le precipitazioni di questo mese possono sembrare una seccatura per tutti quelli che organizzano già gite giornate al mare, ma per la natura sono un toccasana, infatti tantissime primizie estive non arriverebbero mai se non grazie alle piogge di maggio. Quindi, quest’acqua è tanto nutriente quanto lo sono, per lo spirito e la mente, le parole di un saggio: l’acqua dà vita alla terra ed ai raccolti, le parole del saggio sono cibo per lo spirito.
Un altro dei proverbi più sentiti è:
Stare “cu ‘e pacche dinto’a ll’acqua”
Nella stagione estiva, con un clima torrido, risulta difficile pensare che stare “cu ‘e pacche dinto’a ll’acqua” possa avere un significato negativo. Eppure, nella nostra lingua qualcuno sta “cu ‘e pacche dinto’a ll’acqua” quando versa in una condizione di miseria assoluta, quando ha toccato il fondo.
In realtà, originariamente l’espressione doveva essere stremati o oberati di lavoro, infatti secondo lo studioso Raffaele Bracale, l’origine di tutto si riconduce alle abitudini e ai tradizionali movimenti dei pescatori napoletani. In particolar modo alla pesca con la sciaveca (una grossa rete calata in mare), la quale una volta pieno, veniva tirato a riva dai pescatori con un enorme sforzo. Per far questo gli uomini dovevano calarsi in mare con l’acqua ben più sopra delle ginocchia, insomma dovevano mettersi “cu ‘e pacche dinto’a ll’acqua”. Il modo di dire napoletano vorrebbe significare, quindi, che una persona è stanca tanto quanto quei pescatori che a fatica cercavano di portare a riva la grossa rete.
Da questi proverbi, quindi si indica una persona povera, perché secondo la cultura napoletana, il pescatore era il lavoratore più povero, la pesca rappresentava l’ultima spiaggia per chi aveva perso tutto.
Oggi non viene più considerata la fatica dei pescatori, ma soltanto la loro presunta miseria. Così, ritrovarsi come loro “cu ‘e pacche dinto’a ll’acqua”, come dice il proverbio, è sinonimo di condividere la loro disperata ed esasperata povertà.