Due mesi dopo aver vinto il Premio Strega con La bella estate, il 27 agosto 1950 Cesare Pavese viene trovato morto suicida nella camera n° 43 dell’albergo Roma a Torino, all’età di soli 42 anni. Dopo aver passato un sabato sera con l’amico Paolo Spriano, Pavese si avvelena con dei barbiturici. In un articolo su La Stampa così viene raccontato il tutto: “Si era tolto le scarpe, teneva un braccio piegato sotto la testa e un piede che penzolava fino a toccare il pavimento. Venti bustine vuote di sonnifero, chiari indizi di volontà suicida, furono trovate sulla mensola del lavabo insieme ad alcune cialde. Sul davanzale della finestra si volatizzarono gli apparenti resti di una lettera incenerita”. Lo scrittore piemontese lasciò inoltre un’annotazione sulla prima pagina di una copia dei Dialoghi con Leucò che si trovava sul comodino della sua stanza: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”. La morte di Pavese, considerato uno degli autori più importanti del ‘900, lasciò un grosso vuoto sia nella letteratura che nel panorama culturale di Torino.
Sicuramente la vita di Cesare Pavese non fu affatto semplice, attraversata sin dall’infanzia dalla perdita e dal dolore: perse il padre a soli 5 anni e la madre quando ne aveva 22, rimanendo a vivere tutta la vita con sua sorella Maria. Tuttavia, a segnarlo particolarmente fu il suicidio di un suo compagno del liceo, che lo porterà a comporre dei versi molto crudi che nascondono forse un desiderio di emulazione:
Sono andato una sera di dicembre
per una stradicciuola di campagna
tutta deserta, col tumulto in cuore.
Avevo dietro me una rivoltella.
(Lettera a Mario Sturani, 9 gennaio 1927)
Il suicidio, tuttavia, è qualcosa su cui spesso Pavese mediterà nel corso della sua vita e lo si apprende soprattutto leggendo il suo zibaldone Il mestiere di vivere che raccoglie le sue riflessioni personali dal 1935 al 1950. Se volessimo per un attimo ignorare l’ultima volontà di Pavese, se volessimo capire cosa ha portato l’intellettuale a questo tragico gesto, a quale risposta si arriverebbe? La stampa ha a lungo indugiato sulla visione di un Pavese romantico suicida d’amore. In effetti le delusioni romantiche hanno inciso molto sullo stato d’animo dello scrittore, la prima forse più di tutte le altre.
Nel 1935 Pavese fu condannato a 3 anni di confino a Brancaleone Calabro per antifascismo (di preciso per i rapporti che intratteneva con il gruppo antifascista “Giustizia e Libertà”), in seguito al ritrovamento di una lettera politica dopo una perquisizione a casa sua. Una volta tornato a Torino scoprì che la donna a cui era destinata la lettera per cui era stato confinato, Tina Pizzardo (da lui anche chiamata “la donna con la voce rauca”), si era sposata con un altro. Altre cocenti delusioni furono la fine dei rapporti con Fernanda Pivano sua ex allieva che rifiutò di sposarlo e con Bianca Garufi, conosciuta durante il trasferimento alla sede Einaudi di Roma. Queste tre donne e la fine delle relazioni saranno per Pavese come la dimostrazione di un destino di eterna solitudine da cui lui non può fuggire; infatti in data 7 dicembre 1945, queste donne vengono citate insieme nel Mestiere di vivere: “è già due volte in questi giorni che metti accanto T, F, B. C’è qui un riflesso del ritorno mitico. Quel che è stato, sarà”.
L’ultima delusione romantica sarà l’attrice Constance Bowling, conosciuta a Roma e a cui dedicherà la raccolta poetica Verrà la morte e avrà i tuoi occhi e il romanzo La luna e i falò. Quest’ultima delusione rinnoverà in lui un profondo senso di abbandono e solitudine. Nel suo diario, infatti, lo scrittore espresse la propria amarezza per non avere avuto Constance, bensì la sorella Doris, accanto a sé in occasione del conferimento del premio Strega.
Nonostante tutto non si può dire che Cesare Pavese sia morto solo per le delusioni d’amore e la chiave della sua sofferenza la si trova proprio nel Mestiere di vivere quando il 25 marzo 1950 scriverà: “Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, amore, disillusione, destino, morte”. I mancati amori non fecero altro che rinnovare quel profondo senso di solitudine che lo scrittore non ha saputo scrollarsi da dosso, quel conflitto tra l’individuo e la collettività, tra la propria storia e quella della società in cui viveva. In una lettera a Pierina, il cui vero nome era Romilda Bollati, Pavese le racconta che quando aveva 28 anni, voleva uccidersi per una delusione che non ricordava ma che poi non lo aveva fatto: “ero curioso dell’indomani, curioso di me stesso – la vita mi era parsa orribile ma trovavo ancora interessante me stesso. Ora è inverso: so che la vita è stupenda ma che io ne son tagliato fuori, per merito tutto mio, e che questa è una futile tragedia, come avere il diabete o il cancro dei fumatori”. La verità, dunque, è molto semplice: nessun critico o giornalista potrà mai capire il motivo o la serie di motivi che hanno portato Pavese a togliersi la vita ed è per questo che è inutile “fare troppi pettegolezzi”.