Tutto ebbe inizio nel 2016, con le feste in tailleur in solidale emulazione della “moda” del candidato presidenziale americano Hillary Clinton. Ha poi progredito con i suprematisti bianchi in uniforme in polo e kaki durante le loro famigerate dimostrazioni a Charlottesville, l’hanno prima.
Mentre gli effetti della Brexit, della Casa Bianca dell’ex Presidente in carica Donald Trump e l’ascesa del cosiddetto attivismo di estrema destra in Europa e Nord America incresparono le acque della cultura: a dimostrazione del fatto che la moda politica è in voga. I manifestanti di tutti fronti – femministe, suprematiste bianche, nazionalisti e sostenitori della giustizia sociale – si stanno attrezzando per adeguarsi alle loro mentalità politiche.
Questo tipo di vestizione politica non è il codice di abbigliamento dei politici, ma, piuttosto, di individui e gruppi che usano abiti quotidiani per esprimere la propria visione politica. E la società si affretta ad etichettarlo come moda; ma la moda è vestire politicamente?
La dimensione politica dell’abbigliamento è verosimilmente accettata sul piano generazionale dal momento in cui gli individui hanno vita. La società umana è corrispondente alla società vestita. Ciò che si indossa, come lo si indossa, in quale occasione lo si indossa, costituisce espressione di libertà, autodeterminazione e influenze sociali.
L’espressione del vestito è un manufatto culturale, altera l’intero paradigma politico, dalla conformità alla ribellione. Sostanzialmente, lo stile di abbigliamento “sfidante” – o è percepito come stimolante, oppure come l’offerta di un’alternativa allo status quo – acquista significato politico.
Da qui il potere sociale e concettuale del vestito, e l’effetto politico di vestire in modo concordato, fino a sfociare nel convenzionale.
Ricorderete che, nel corso delle contro-dimostrazioni a Charlottesville, in Virginia, i manifestanti antifa che si opponevano ai suprematisti bianchi indossavano il “black bloc“, una vera e propria uniforme scura, indirizzata a mostrare una irriducibile posizione unitaria contro il riferimento razzista anti-nero.
Al contempo, l’abito “black bloc” esprimeva la volontà di ricorrere alla violenza, proprio come nel caso delle Pantere Nere, negli anni ’60 e ’70, che approfittarono di una “falla” nel secondo emendamento della costituzione degli Stati Uniti che ha consentiva di detenere indosso, in pubblico, armi da fuoco non svelate.
In che modo la moda ha incarnato la lotta di classe?
Alla peculiarità della moda ha di dare avvio a processi di identificazione e differenziazione e di inoltrarsi nei processi di stratificazione sociale non poteva disconoscere la differenziazione in classi sociali, così come conseguiva dalla Rivoluzione Industriale. Da questo processo sono sorte due classi sociali: la borghesia capitalistica e il proletariato – che fedelmente all’analisi di Marx, risultano dialetticamente contrapposte, nel drastico e radicale scontro della lotta di classe.
Da questo momento in avanti, è frequente riscontrare espressioni di utilizzo diffuso che, nel descrivere una tipologia di abbigliamento propria di una determinata classe sociale, rimandano al ruolo che essa ricopre nel processo di produttività (white collars, tute blu) e che rimangono tutt’oggi immutate.
“La moda, al pari di altri simboli, è funzionale alla rappresentazione simbolica del potere e della sua stratificazione all’interno della società”, afferma Maria Cristina Marchetti, docente di Sociologia dei fenomeni politici alla Sapienza ed autrice di “Moda e politica”, pubblicato dalla casa editrice Meltemi. “Ciò ovviamente non esclude le risorse extrasimboliche di cui il potere dispone, prime fra tutte i beni economici e la violenza, ma le integra“.