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Lo scugnizzo: simbolo napoletano di spensieratezza e miseria

Nel bene e nel male lo scugnizzo è sempre stato uno dei simboli più conosciuti di Napoli: tra delinquenza e furbizia, tra miseria e “arte di arrangiarsi”, lo scugnizzo è anche un po’ l’essenza della città stessa. A livello iconografico è sempre stata una figura ben delineata con il suo berretto, gli abiti rammendati, il mozzicone di sigaretta in bocca e la faccia impertinente e proprio grazie a questa sua iconicità, lo scugnizzo è entrato a far parte di molte pieces teatrali e film, nonché poesie. Se questo monello di strada ci racconta da sempre l’autentico folklore partenopeo dall’altro, tuttavia, ci racconta le difficoltà dei figli di Napoli, di quei bambini rimasti senza famiglia o che la famiglia ha abbandonato e che hanno dovuto fare i conti con la dura legge della strada. C’è da dire che c’è molto da imparare, sia dall’idealizzazione romantica di questi monelli che dalla cruda storia che i loro vissuti raccontano.

Qual è l’origine della parola “scugnizzo”? Non c’è pieno accordo tra gli studiosi: c’è chi sostiene che il termine derivi dalla parola napoletana “scugnare” ossia “scheggiare”. Ferdinando Russo, poeta napoletano, racconta che uno dei giochi preferiti dai ragazzini partenopei era gareggiare con i propri “strummoli” (rudimentali trottole di legno il cui perno era una punta di ferro) e il vincitore aveva diritto a scheggiare la trottola dell’avversario. Secondo alcuni studiosi, “scugnare” deriverebbe dal latino excuneare (rompere, spaccare), ma oggi è un’ipotesi abbandonata da tempo perché appare una forzatura. La parola scugnizzo appare per la prima volta nel 1897 proprio in una raccolta di poesie di Ferdinando Russo ( ‘E scugnizze) ed è proprio lui ad escludere il nesso latino: dichiara infatti di aver sentito questa parola per la prima volta negli anni Novanta dell’Ottocento, ritenendo che fosse più probabile che provenisse “da un ambiente non napoletano” per poi essere assorbita in un uso gergale. Il professor Nicola De Blasi, linguista e accademico della Crusca, è intervenuto a sostegno di questa tesi, affermando che “scugnizzo” deriverebbe da alcune parole dialettali del Settentrione, tra cui il piemontese “gugnìn”. De Blasi inoltre spiega in un’intervista rilasciata al Corriere del Mezzogiorno che dopo l’Unità d’Italia arrivarono a Napoli gendarmi, carabinieri e funzionari della questura proveniente dal nord e che probabilmente gli stessi monelli partenopei sentendosi apostrofati come “gugnìn”, si siano appropriati di questa definizione.

Inizialmente lo scugnizzo è sinonimo di delinquenza. Lo stesso Ferdinando Russo chiarisce che in origine questo termine circolava nell’ambiente della malavita. Lo scugnizzo si deve procurare di che vivere districandosi tra cose più grandi di lui e lo fa rubando e combinando guai per i vicarielli (vie strette) di Napoli. La parola compare addirittura in un saggio del criminologo Cesare Lombroso, il quale si occupò di analizzare il gergo camorristico: nel suo scritto la parola “scugniz” compare con il significato di “giovinetto ladro”. La storia dello scugnizzo è tuttavia una storia di grande miseria dell’Italia postunitaria, in cui Napoli appare sempre più povera e con lei i suoi abitanti, tra analfabetismo e fame. A dare testimonianza di questa tragedia umana è stata Jessie White Mario con il suo libro-inchiesta La miseria in Napoli.  Fu accompagnata da due amici napoletani a visitare i fondaci, grossi magazzini destinati allo stoccaggio di merci in cui molti poveri trovarono rifugio. La giornalista inglese racconta: “i soffitti crollavano, molte delle stanze totalmente buie, l’una ricevendo luce dall’altra, e questa dalla porta, oppure da buchi, chiamati finestre; ma senza vetri.(…) e tenendo bene in mente che molte (camere) sono occupate da due ed anche tre famiglie, se ne comprendo facilmente tutta la luridezza”.

Col tempo, lo scugnizzo ha perso ogni connotazione negativa ed ha assunto un significato legato al folklore di ragazzino povero che si gode la vita tra una marachella e l’altra, diventando così protagonista di molti film quali L’ultimo scugnizzo (1938), Paisà (1946), Uno scugnizzo a New York (1984) e Scugnizzi (1989). Tuttavia la rappresentazione migliore è proprio quella che ne fa Raffaele Viviani, abile commediografo che si è avvalso della sua esperienza di vita per mostrare il carattere derisorio e la gioia di vivere dello scugnizzo, scegliendo come protagonisti delle sue opere gente dei bassifondi ed assegnando loro il compito di denunciare le contraddizioni di una società dove il divario tra poveri e ricchi è un vero e proprio schiaffo.