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La napoletaneria, metonimia becera di un ethos

La napoletaneria è un concetto che trovò prima presentazione in un articolo di Raffaele La Capria negli anni 80′, nel rivolgersi all’opera dell’ultimo baluardo della napoletaneità, cioè Eduardo De Filippo. Secondo La Capria costituiva l’ostinarsi, soprattuto linguisticamente con l’avvento di un italiano regionale, a traslare un’immagine gioiosa di Napoli e non problematica dell’attuale.

Cos’è la napoletaneria oggi? E’ la degradazione, posta attraverso un mediocre folklore, una sottocultura trash fatta del “neomelodico”, avallata dall’appoggio di stereotipi e luoghi comuni che convogliano l’ethos dell’essere napoletani oggi, nella società dell’impero del melting pot e della comunicazione massmediatica immediata dei social.

La prima rappresentazione di questo topos sotto degradante ha come rappresentazione un canone teatrale esatto, come la sceneggiata, pronta a rappresentare per il mondo l’immagine arcaica di una Napoli protesa dalla felicità arcaica del “vicolo”, che Domenico Rea decina analogo al “ghetto” che funge da gabbia esistenziale e sociale delle classi proletarie e sottoproletarie.

Ad oggi, la napoletaneria ha trovato nuovi sostrati comuni per celebrare gli stereotipi, in maniera duplice, che toccano sia il napoletano cittadino e la visione di Napoli a livello massmediatico e fuori dal perimetro territoriale.

Il rapporto tra la società napoletana, protesa all’avveniristico futuro, vede anche nell’angustia del “basso” abbracciare la tecnologia avente come feticcio lo smartphone; ma allo stesso tempo persistono quegli strati in essi che ancora vivono del passato a loro prossimo fatto dell’età d’oro del contrabbando di sigarette, del parcheggio abusivo e del Napoli di Maradona e Ferlaino o delle canzoni di Nino d’Angelo.

Proprio il mito calcistico può far meglio comprendere come questa uscita verso il futuro sia spesso tacciata di un “torcicollo”, il quale trova ottimi sfondi all’interno della televisione e del suo coacervo di trasmissioni -in primis Barbara D’Urso-, del mondo social e si riverbera come riflesso della Napoli attuale, soprattuto nelle aree settentrionali dello stivale, tacciando la società partenopea unicamente del suo risvolto negativo, fatto di spazzatura, illegalità e “adda passà a nottata”.

L’elegiaco ricordo del passato della napoletaneità non ha nulla a che vedere con tale accezione; la napoletaneria è traghettata come mera infamia da parte di personalità del mondo dell’editoria come Vittorio Feltri e ha avuto come massima definizione linguistica l’appellativa del “terrone”, divenuto slogan negli anni addietro di movimenti e partici politici secessionisti.

 

 

Domenico Papaccio
Domenico Papaccio
Laureato in lettere moderne presso l'Università degli studi di Napoli Federico II, parlante spagnolo e cultore di storia e arte. "Il giornalismo è il nostro oggi."