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Giovanna Di Giacomo “si espone” in una mostra

Giovanna Di Giacomo nasce a Benevento nel 1994. Ha sempre nutrito una forte attrazione per la fotografia tanto da spingersi fin da bambina ad utilizzare le praticissime usa e getta, e non solo in gita scolastica. Crescendo continua a sperimentarsi attraverso l’uso di svariate tecniche ma la fotografia analogica rimane la sua modalità di espressione privilegiata, costruendo un’intera poetica sulle infiltrazioni di luce. Ha partecipato a diverse collettive nel Sannio, ha lavorato come fotografa ufficiale di Verehia, associazione beneventana che si occupa di promuovere il patrimonio artistico e culturale del territorio.

Nel 2016 si sposta a Roma dove partecipa alle rassegne del “cadavere squisito” presso la Tevere art gallery. Nell’anno 2017/2018 partecipa alla Tag Factory, un gruppo di artisti che collaborano ad esposizioni a tema condiviso. Il suo lavoro attualmente è volto a far comunicare fotografia e psicologia, oggetto della sua tesi di laurea in psicologia clinica.

Esporrà le sue opere, inerenti alla tematica “Homesickness”, traducibile con la dicitura “nostalgia di casa”, il giorno 28 ottobre presso l’Asilo 31, dalle 19:30 alle 23:00, presso la sua città natale, Benevento.

Segue l’intervista con Giovanna Di Giacomo.

Giovanna, da dove nasce l’idea di questa mostra?

«Qualche mese fa sono stata invitata dai ragazzi dell’Asilo 31 ad esporre nella loro struttura. Si tratta di un laboratorio per l’autorganizzazione che porta avanti attività di promozione sociale come il doposcuola gratuito per bambini e adolescenti e gli sportelli antiviolenza sulle donne nonché diverse iniziative culturali e artistiche. Generalmente sono molto interessata ad entrare in contatto con il luogo che mi ospita, creando qualcosa di nuovo o rielaborando un mio lavoro precedente in cerca di nuove associazioni, soprattutto quando mi si concede uno spazio personale. Riflettendoci, ho deciso di presentare il progetto “Homesickness”, basato su una particolare forma di nostalgia, in quanto lo sentivo metaforicamente vicino al movimento di lotta per la casa, che ha sede proprio all’Asilo 31. Chiarisco subito che il movimento si occupa di tematiche sociali e politiche reali volte a garantire un’abitazione in condizioni di precarietà. Nel mio progetto invece la casa non è intesa come un luogo fisico definito ma come una sensazione labile seppur familiare, difficile da definire. Una sensazione relativa al trovarsi in un posto senza desiderare di essere altrove, in modo confortevole e rassicurante. Ciò non è assimilabile unicamente a un clima domestico anzi ci si può sentire a casa anche in un posto straniero, nei tunnel bui della metro, perfino in posti in cui non abbiamo mai vissuto ma che sentiamo nostri appena li varchiamo.»

Perché un tipo di mostra non convenzionale? Che messaggio vuoi comunicare con questo tipo di esposizione?

«Per l’esposizione del 28 ottobre saranno con me Pietro Piscosquito che si è occupato delle composizioni sonore e Francesco Piscosquito che ha curato invece la parte grafica e il montaggio del video. La nostra collaborazione nasce da una chiacchierata in un bar di periferia in cui abbiamo scoperto un sentire comune il tema presentato. È così che è nata l’idea di una video istallazione come tentativo di contaminazione dei nostri linguaggi personali. Più che messaggio da comunicare è una ricerca di contatto con l’altro, che può immergersi tra i contenuti proiettati. È un tentativo di fornire un’esperienza.»

Quale percorso di vita ha generato l’attenzione che hai conferito a questa tematica?

«Beh, devo ammettere che la fatidica sensazione di non sentirmi a casa o il fascino di trovarmi in luoghi fuori dal mio ordinario è un vissuto personale. Riguardando le mie fotografie, circa due anni fa, mi sono accorta che poteva delinearsi un tema comune anche se non ne ero consapevole nelle fasi di scatto. Ho fotografato spesso i luoghi in cui ho sostato per brevi o lunghi periodi e le persone che erano con me a condividere l’esperienza. Un elemento ricorrente è sicuramente l’uso dei materassi, a volte a contatto con i corpi. Potrei definirla una preferenza estetica ma ciò che mi attrae è l’idea di nudità e di mancanza di artificio che il tessuto e la pelle trasmettono, così come le diverse texture che si uniscono alla luce. Sono fotografie che nascono da un clima di intimità e sono prodotte con l’intento di amplificare ciò che sto vivendo, fermandolo nello scatto.»

Quale strumento hai utilizzato?

«Nella mia ricerca visiva prediligo l’uso della pellicola, soprattutto quando porto avanti progetti estremamente personali. Le foto che ho selezionato per la video istallazione sono state scattate con una Yashica MG – 1, appartenente a mio padre, che è stata anche la mia prima fotocamera in assoluto. La fotografia analogica la affronto con un approccio che mi consente di immaginare lo scatto, di previsualizzarlo nella mente, senza neanche esser troppo sicura che sia stato realmente impresso. Si crea poi un’attesa temporale, una fase di latenza in cui continuo a pensarci, con contorni sempre meno nitidi. Ci sono immagini che non sono state impresse di cui non riesco a liberarmi, che continuo a ricercare. Potrei dire di essere in realtà tutte le foto che non sono state impresse. È dunque per me un processo lento che consente di prendere appunti, che permette di fermarti, che porta inevitabilmente ad essere legato prima all’immaginario e poi all’immagine vera e propria. Ed è un processo che rende interessante e imprevedibile anche il risultato.»

Cosa ti ha spinta a scegliere proprio questo tipo di approccio ?

«Potrei dire di essere alla ricerca dell’errore fotografico, questo è accaduto quando il dorso della mia Yashica si è rotto non proteggendo più la pellicola dalle infiltrazioni di luce. Le immagini prodotte dunque si sono riempite di questa intrusione che taglia o avvolge l’immagine in modo assolutamente variabile. Non ho mai pensato di ripararlo e mi sono divertita ad osservare come intervenisse il caso a manipolare le mie visioni. Infine, mi sono accorta che, attraverso questi riflessi, potevo stabilire un nuovo percorso di senso. C’è stata un’immagine che mi ha fatto realizzare pienamente questo. Ero uscita a fotografare in occasione di una nevicata, non lo facevo da un po’ di tempo perché stavo vivendo un momento non facile della mia vita. Lungo il percorso ho notato un albero che si ergeva da solo in un paesaggio invernale arido e totalmente ricoperto dalla neve. Ho scattato pensando che sarebbe stato un autoritratto di ciò che stavo vivendo. Quando l’immagine è emersa ho notato che l’infiltrazione di luce aveva avvolto completamente l’albero dandogli una colorazione calda. Si è creato così un contrasto tra lo sfondo e il soggetto principale che mi ha restituito metaforicamente un autoritratto ancora più profondo.»

La foto fa parte del progetto "The season inside me", selezionata nel gennaio 2017 da Locomotiv, posterzine tematica a cadenza mensile.
La foto fa parte del progetto “The season inside me”, selezionata nel gennaio 2017 da Locomotiv, posterzine tematica a cadenza mensile.

Cosa vuoi lasciare a chi visiona il tuo percorso fotografico?

«Il mio percorso fotografico è sicuramente un’esigenza che avverto molto forte che si è unita negli ultimi anni anche a quella di comunicare e condividere. È qualcosa che ho fatto fatica a riconoscere in quanto inizialmente non ero consapevole di portare avanti una ricerca. In tutta onestà anche adesso non è che io sia così consapevole di cosa sto facendo al momento della realizzazione. Il senso lo costruisco quasi sempre più tardi, quando guardo nello stesso momento foto che fino a prima erano quasi insignificanti e che poi riconosco invece come qualcosa di compiuto. Il mio fotografare ha subìto un’evoluzione nel corso del tempo andando a significare cose anche diverse tra loro. Ultimamente è per me un mezzo di introspezione, uno strumento con cui posso guardarmi dentro, analizzando contenuti inconsci non ancora pensabili, ed elaborando vissuti personali. Vorrei che diventasse sempre di più un mettermi in contatto con l’altro, non ricerco la contemplazione o l’approvazione ma storie da raccontare. Vorrei inoltre trasmettere la bellezza della sperimentazione e dell’imprevedibilità che considero qualcosa di sottovalutato oggi, in quanto ci si concentra sulla ricerca della perfezione tecnica, del tutto visibile, dell’omologazione bulimica a tutti i costi. Infine, oltre al mio percorso fotografico personale, essendo una laureanda in psicologia, vorrei specializzarmi nell’uso della fotografia nella relazione d’aiuto.»

Ecco il link dell’evento: https://www.facebook.com/events/939079862951468/?ti=cl

Rosalba Caramiello
Rosalba Caramiello
Giovane psicologa clinica laureatasi all'Università di Roma "La Sapienza" ed educatrice, appassionata di giornalismo e fotografia.