Quando è diventato il nostro standard di “bellezza” essere magra, alta, avere la pelle liscia e uniforme, essere giovane e bianca? Immagini della bellezza parecchio limitate, che riguardano non più del 2% della popolazione, e che, nonostante questo, rappresentano il canone di bellezza che la maggior parte delle donne insegue da decenni. Un corpo in carne non era mai stato un problema, prima degli anni 60.
Nel primo dopo-guerra, le donne, in assenza degli uomini poiché impegnati in battaglia, si erano scoperte a ricoprire ruoli sempre più variegati e versatili, che fino a quel momento erano stati riservati soltanto al genere maschile, acquisendo sempre più potere ed emancipazione provenienti dall’indipendenza, in particolar modo quella economica. Le donne erano diventate sempre più auto-sufficienti, avevano assunto posti di lavoro più remunerativi nelle industrie, settore che tradizionalmente era dominato da uomini.
Holly Grout, in “The Force of Beauty” asserisce: “Mentre le donne entravano nelle università, nel settore terziario e nelle fabbriche come mai prima di allora, dibattiti familiari sul ruolo sociale della donna, sulla sua rilevanza politica e sul suo rapporto ambiguo con il sesso opposto acquisivano una nuova salienza”.
“Dopo la guerra un nuovo archetipo della femminilità moderna iniziò a emergere: la donna era libera, aveva un nuovo ruolo sociale, liberata dalle restrizioni della classe e del galateo della vecchia scuola. Soprattutto, la donna era visibile- in molti modi.
Non è stata solo la maggiore presenza di corpi femminili – nelle strade della città, nei luoghi di lavoro-, ma anche l’esposizione di tali corpi nei media, nei materiali di marketing e sul palcoscenico, che insieme hanno influenzato il modo in cui le donne sono state viste. Il concetto moderno di femminilità non era solamente un sottoprodotto della guerra, bensì un prodotto di “forze commerciali e culturali intrecciate al lavoro”, sostiene Grout.
Questa “indipendenza” intimoriva a tal punto il patriarcato che fu necessario istituire uno stratagemma per far in modo che quelle finanze “extra” venissero dilapidate, così da ridimensionare il bottino che stavano accumulando. Lo strumento di cui si sono serviti, immaginate quale sia stato? Esatto, i media e la pubblicità.
Fino a quel momento, la pubblicità provvedeva principalmente a dare informazioni al pubblico sull’esistenza di un prodotto e sulle sue caratteristiche. Da quel momento in poi, però, ci fu un radicale cambiamento: più che a informare, l’obiettivo della pubblicità durante il boom economico era persuadere i potenziali consumatori sulla imprescindibile necessità di acquistare quel determinato prodotto.
Soprattutto, si impegnavano a proporre beni che illudessero il consumatore circa la possibilità di elevare il proprio “stato sociale”: vendevano soluzioni a problemi che non esistevano.
Il corpo femminile era il bersaglio ideale. A tal modo, hanno perpetuato una comunicazione basata sulla presunta inappropriatezza delle fattezze femminili, e su quali fossero le soluzioni da adottare per migliorarlo: loro avevano già un prodotto da proporre per risolvere il “problema”.
Un esempio lampante fra tutti, è quello della cellulite. Più del 90% delle persone al mondo, ha la cellulite. Ma questo, fino agli anni ’60 non era mai stato un problema, anzi era del tutto normale e regolare. La cellulite era soltanto tessuto fibroso sottocutaneo, non aveva neanche un nome proprio, tantomeno qualcuno l’aveva mai identificata come un problema a cui ovviare.
Nel 1968, Vogue, fu la prima rivista a diffondere il termine “cellulite“, additandolo come “attributo deturpante“. Appena dopo il raggiungimento degli scaffali di quel numero editoriale, il mito della cellulite è divenuto un concetto mainstream che ha dato vita ad nuova parola e ad un nuovo modo per le donne di odiare il proprio corpo, ritenendo, quello che vedevano sulla propria pelle, qualcosa di sfigurante della quale liberarsi ad ogni costo.
Ma Vogue, ovviamente, aveva anche la “soluzione” a quell’orrenda malattia che si era inventata di sana pianta, tra cui dei costosi trattamenti del Beauty Salon di Nicole Ronsard (una personcina che proprio in quegli anni scrisse numerosi libri sul “problema” della cellulite, divenendo, guarda caso, milionaria).
Nel 1873, i dottori Émile Littré e Charles-Philippe Robin inclusero la parola “cellulite” nella dodicesima edizione del Dizionario di Medicina. Questo fu il primo utilizzo che conosciamo del termine. Tuttavia, la definizione originale ed accurata di “cellulite”, non aveva nulla a vedere con “fossette” oppure “grasso”.
Si trattava (e si tratta ancora, perché non è cambiato) di un termine generico, in riferimento a cellule o tessuti che versavano in uno stato di infiammazione o infezione. Era strettamente collegato a “cellulitis”, una diagnosi che viene tutt’oggi utilizzata (e che non riguarda in alcun modo le “fossette sul sedere”) utilizzata in relazione ad infezioni pelviche.
Ed ecco che appaiono come per magia centinaia di migliaia di prodotti e trattamenti per sconfiggere il “mostro” della cellulite: creme, aggeggi massaggianti, diete, trattamenti, fanghi, farmaci, integratori. Tutti prodotti per un business miliardario, e nessuno di questi prodotti miracolosi che ci propinano fino all’estenuazione funziona.
Alcuni marchi, come Nivea, L’Occitane, QVC, Somatoline Cosmetic, L’Oreal, SlimCav, sono stati sanzionati per pubblicità falsa ed ingannevole dalla FTC (Federal Trade Commission). In buona sostanza, il rimedio efficace contro la cellulite non esiste, semplicemente per il fatto che non c’è niente da dover curare. La cellulite è una congenita condizione umana naturale, trasformata strategicamente in una patologia femminile.
Da questo momento in poi, vi è stata un’asta al ribasso dei livelli raggiunti. Dalla comparsa sulle riviste, pubblicità, social media di ogni tipo, che comunicavano alle donne quale parte del corpo non andasse bene: è stato il momento dei famosi “hip dip”, o dei “thight gap”, ponendo l’attenzione su una magrezza sempre più estrema, che sarebbe peggiorata di anno in anno.
Un circolo vizioso tossico che continua a minare la nostra autostima, al solo scopo di arricchire l’industria della bellezza, della moda, della chirurgia estetica, della dieta e quella pubblicitaria. Industrie che creano e si sostentano delle nostre insicurezze, alimentando uno standard sempre più “elevato”, che non raggiungeremo mai.
Mai come oggi, infatti, il mondo è ricolmo di immagini, più o meno consciamente, ne assorbiamo una quantità potenzialmente infinita, che inficia la nostra psiche, interferendo con il modo in cui ci vediamo.
Vetrine, copertine, cartelloni pubblicitari, schermi, tv, social, cinema, etc., siamo bombardati di immagini che rappresentano “modelli perfetti” – ovvero modelli che rappresentano uno standard completamente in dissociazione rispetto alla quasi totalità della popolazione mondiale – diventa, perciò, comprensibile percepirsi imperfette e “difettose”, e l’accettazione della nostra figura diventerà una battaglia a vita natural durante.
Il messaggio recondito è che il mondo in cui siamo fatti è sbagliato, non va bene, e che per sentirsi bene con se stessi bisogna assomigliare a “loro”. Ma è obiettivo impossibile somigliare a loro, perché nemmeno loro somigliano a loro.
Sara Melotti, scrittrice, videomaker, ed ex fotografa di alta moda, ci fa sapere: “Ho lavorato sui set della moda per anni, di quel tipo di immagini ne so qualcosina visto che le creavo. Sappiamo tutti ormai che dietro le immagini editoriali e commerciali ci stanno tante persone, tante ore di lavoro e tanta postproduzione […]
Funziona così, la modella arriva sul set, passa un paio d’ore in hair and make up e un team di professionisti la rende ancora più “perfetta” di prima, poi sul set viene fatta posare sotto luci che appiattiscono ogni eventuale “difetto”, il team si rassicura che non ci sia mai un capello fuori posto, poi una volta finito di scattare seguono ore di photoshop e postproduzione (e non pensate che i video siano esenti dallo stesso tipo di postproduzione, anche lì la pelle viene “lisciata” eliminando ogni poro, le rughe eliminate, il corpo snellito). Insomma, a lavoro finito, la ragazza nella foto non assomiglia quasi più alla ragazza nella foto.”
Tutto ciò è un sistema sapientemente architettato dall’industria capitalista per far sguazzare in una perenne ed inesorabile condizione di insoddisfazione, traendo linfa vitale da tutte le insicurezze che ne derivano e da ogni tentativo messo in atto nel tentativo di colmarle.
Un’insicurezza che affonda le proprie radici fin dalla prima infanzia, quando ci ritroviamo già a dover fare i conti con immagini fortemente idealizzate e sessualizzate, come le Barbie (con dei fisici tenacemente somiglianti alle modelle da copertina), o le Bratz (il cui focus è posto prevalentemente sull’estetica e lo shopping), od ancora le Principesse dei Cartoni Animati, tutte canonicamente belle, perfette ed “attraenti”.
Viene da sé che le nostre crisi adolescenziali, il momento di maggiore vulnerabilità emotiva, sia costellato di rese di conti con la percezione distorta della nostra immagine, difficilmente somigliante all’innaturale e deviato standard con cui abbiamo imparato a familiarizzare.
THE ILLUSIONIST – un documentario pluripremiato sulla globalizzazione della bellezza e sul lato oscuro della pubblicità
Come ci illustra Elena Rossini, cineasta, scrittrice e artista italiana, nel suo documentario The Illusionist: l’ideale di bellezza è inventato, prodotto e diffuso dai media che abilmente, da decenni, si ripropongono severamente di non lasciar trasparire immagini di donne normali, agendo come censori della “normalità”, suggerendoci che la magrezza sia un connotato imperativo ed imprescindibile, de-normalizzando la normalità ed attuando una rivoluzione del modo con cui percepiamo noi stessi.
Recentemente, abbiamo assistito ad una “spettacolarizzazione” della diversità della bellezza, con modelle affette da vitiligine, modelle plus-size, modelle con strabismo o sopracciglia foltissime ecc., ma siamo ancora ben distanti da immagini reali di donne normali, soprattutto perché, anche nei casi summenzionati, le foto vengono abilmente ritoccate in modo da celebrare i difetti su cui ci si vuol focalizzare, e celare il resto.
Dopo aver censurato e manipolato le immagini ed aver creato un prototipo di corpo irreale, idealizzato ed iper-sessualizzato, le rifilano ovunque, spesso in associazione con prodotti sponsorizzati, suggerendo, tra le righe, che quel tipo di aspetto idealizzato e non esistente possa essere acquistato al prezzo del prodotto che devi necessariamente comprare per ottenerlo, glorificando, così, “l’estetica” come un connotato essenziale nella vita.
Per l’appunto, i mass media, oltre ad imporci quali sembianze abbiano la femminilità, o la mascolinità, la sessualità, e la bellezza, comunicano direttamente al nostro subconscio, associando immagini di questa bellezza illusoria ad immagini di successo, denaro, potere, amore e felicità: fornendo così un ragguaglio di quanto sia necessario essere belli, per essere felici, amati, rispettati. E per essere belli, bisogna rientrare in quei canoni estetici. Non si scampa!
Chi, infatti, non si è mai riscoperto a pensare che avere connotati estetici diversi, come un seno più grande, un addome piatto, un naso diverso, ci avrebbe resi più “felici“?
E così, mentre la percezione di noi stessi viene destramente distorta, viene modificata anche la considerazione che abbiamo del nostro valore, dando origine ad una cultura psicotica dell’estetica e delle immagini.
Una ricerca condotta dalla Royal Society ha dimostrato che, se i social media divulgassero maggiormente immagini di donne sovrappeso o normopeso, diminuirebbe sensibilmente l’insoddisfazione cronica che la maggior parte delle persone nutre nei confronti del proprio corpo e della propria immagine, e che è terreno fertile per i disturbi alimentari.
Ma per gli advertisers ed i mass media questo sarebbe controproducente, economicamente parlando.
Immagini e donne oggettificate ed iper-sessualizzate
Il fenomeno dell’oggettificazione della donna è una piaga sociale sempre più allarmante.
Le immagini di cui sopra, sono soltanto un esempio dei messaggi che vengono divulgati, e che rileviamo in qualsiasi contesto: magazine, film con attrici i cui corpi vengono messi in mostra in modo per niente pertinenti alla trama, videogiochi con personaggi femminili iper-sessualizzati con seni prorompenti e vestiario succinto, cartoni animati, veline, showgirls, modelle utilizzate come elemento prettamente decorativo.
Qual è il messaggio e quali immagini si imprimono nella nostra psiche?
Secondo uno studio condotto dalla filosofa Martha Nussbaum, il concetto di oggettivazione comprende sette dimensioni:
1. Strumentalità: l’oggetto è uno strumento per gli scopi altrui;
2. Negazione dell’autonomia: l’oggetto è un’entità priva di autonomia e autodeterminazione;
3. Inerzia: l’oggetto è un’entità priva della capacità di agire e di essere attivo;
4. Fungibilità: l’oggetto è interscambiabile con altri oggetti della stessa categoria;
5. Violabilità: l’oggetto è un’entità priva di confini che ne tutelino l’integrità. È possibile farlo a pezzi;
6. Proprietà: l’oggetto appartiene a qualcuno;
7. Negazione della soggettività: l’oggetto è un’entità le cui esperienze e i cui sentimenti sono trascurabili.
“L’esposizione costante a modelli femminili oggettificati distorce la percezione maschile nei confronti delle donne. La loro natura viene percepita sempre più come strumentale, un mezzo di soddisfazione di un bisogno che può essere sessuale o meramente esecutivo, basti pensare al lavoro di cura domestica affibbiato in toto alle “donne di casa”, ma anche emotivo.
Non è raro vedere una donna (moglie, fidanzata o madre) essere usata come cuscinetto di sfogo; gli uomini pretendono di essere sempre al centro, essere ignorati da una donna è insostenibile, non esistono per questo, per servire un sistema androcentrico?”
Questo tipo di rappresentazione, di immagini, non giustifica in alcun modo, ma contribuisce purtroppo ad ampliare sempre più il divario della differenza di genere, oltre ad incitare la violenza sulle donne.
Come spiega la psicologa Chiara Volpato, nel suo libro “Deumanizzazione: Come si legittima la violenza”:
“La deumanizzazione comporta la negazione dell’identità della vittima, che viene percepita come se non fosse più una persona, dotata quindi di storia personale, sentimenti, amor proprio, cultura e diritti.” Continua – “Gli uomini sono influenzati dai mass media e da una cultura iper-sessualizzata che mostra le donne come corpi belli e disponibili, il rischio di provare meno empatia verso vittime di molestie e violenza è reale, poiché viene attribuita loro meno capacità di provare gioia, dolore e sentimenti.
A questo proposito, Hipp e colleghe hanno riscontrato come un responsabile di aggressioni sessuali su cinque giustifichi la propria violenza con commenti che oggettivano e “depersonalizzano” la vittima (“[le persone] le ho usate come sex toys” – “Non era più una persona, solo uno strumento per uno scopo). Allo stesso tempo, se la vittima di una violenza viene presentata come una donna che veste in modo provocante o si auto-oggettivizza, viene giudicata come più colpevole, i suoi aggressori sono meno percepiti come “carnefici”, e le persone sono meno propense a fornire aiuto e soccorso.
Ciò suggerisce che una donna percepita come oggetto sessuale non solo è a rischio di molestia, ma anche di essere colpevolizzata.”
Finche le donne verranno dipinte nelle immagini e dai mass media come oggetti puramente decorativi, muti, belli, utili, continuamente disponibili al sesso, purtroppo, i tassi di violenza non saranno incentivati a diminuire, gli uomini identificheranno sempre le donne come “merce prodotta in serie”, e si sentiranno ancora legittimati a “maneggiarla” come vorranno.
Il corpo femminile viene ripetutamente sfruttato per vendere, dai prodotti di bellezza al cibo, venendo rappresentato non in qualità di essere umano pensante dotato di tutte le qualità riferibili all’intelletto, ma come mero oggetto sessuale.
Un ornamento, sottomesso, o, nei peggiori dei casi, ad un pezzo di carne.
Molti, furbamente, acclamano il processo di disumanizzazione femminile anche come “women empowering“. Ma, ricordiamo, che l’empowering si attua quando si è il soggetto che agisce, non l’oggetto costantemente osservato ed usato.
Eppure, le immagini disumanizzate, iper-sessualizzate e oggettificate, nella maggior parte dei casi, sono proprio rivolte all’universo femminile. A quale scopo? Principalmente, alcuni.
Il primo, fra tutti, è che la donna che osserva, si paragoni alla donna in foto, traendone un paragone tra il suo corpo ed il proprio: innescando il famoso senso di inadeguatezza.
Il secondo, è che la donna che osserva, si convinca che il proprio valore personale dipenda dalle attenzioni che il proprio corpo riesce ad ottenere; in particolar modo dallo sguardo maschile eterosessuale.
Lorella Zanardo, nel suo libro (e documentario omonimo) intitolato “Il corpo delle donne”, analizza la rappresentazione costruita ed innaturale della femminilità durante i palinsesti berlusconiani, ed afferma:
“Una donna arriva a percepire il suo aspetto esteriore in base a ciò che il contesto sociale definisce “sexy” per un maschio eterosessuale. Infatti, la teoria dell’oggettificazione ipotizza che la percezione della donna sia influenzata, in entrambi i generi, dalla continua esposizione del corpo femminile come oggetto adibito all’uso sessuale altrui, piuttosto che come individuo capace di prendere iniziative autonome.
Di conseguenza, la donna arriva a considerare la sua esteriorità come caratteristica principale per il proprio self, in competizione con le rappresentazioni sessualizzate diffuse nei media.”
Ed è qui che entra in scena il fenomeno dell’auto-oggettificazione. L’auto-oggettificazione è una conseguenza derivante dall’idea che il nostro corpo sia la parte più importante di noi; è una bestia nera, radicata nella coscienza collettiva, e si rivela quasi impossibile rendersi conto quando e quanto ci si stia auto-oggettificando. In particolar modo se si trascorrono ore ed ore dinanzi agli schermi della tv o del PC, od a scrollare su instagram e social affini.
Ora che le nostre vite sono virtuali e digitalizzate, è sufficiente essere detentori di uno smartphone per venire subissati da immagini dello Standard.
La scrittrice, fotografa, e videomaker Sara Melotti, ammettendo il rischio di risultare impopolare al giorno d’oggi, avvisa:
“Contenuti di un certo tipo non diventano un atto rivoluzionario contro il patriarcato e non sono women empowering, ma rischiano di diventare l’ennesima sfaccettatura dell’oggettificazione, che contribuisce a perpetuare la disuguaglianza di genere. […] È una forma di misoginia interiorizzata, una richiesta esplicita di essere guardata, validata, premiata per il corpo, come corpo”.
Ed aggiunge, per chiarire il concetto –
“Non c’è niente di male nel farsi i selfies, o nel postare foto di te stessa, o nella nudità, o nella sensualità, o nel truccarsi, o nel depilarsi le ascelle, o nell’indossare qualsiasi cosa si voglia indossare; sono il motivo per cui lo si fa e l’atteggiamento con cui lo si fa che fanno la differenza tra espressione e oggettificazione.”
Secondo le ricerche di Caroline Heldman, studiosa e ricercatrice dell’Occidental College di Los Angeles come spiega in “TEDx talk “The sexy lie“, l’auto-oggettificazione condurrebbe a queste conseguenze:
- Depressione;
- Monitoraggio del corpo abituale;
- Disturbi alimentari;
- Body-shame;
- Disfunzioni relazionali;
- Riduzione delle capacità cognitive;
- Disfunzioni sessuali;
- Bassa autostima;
- Media dei voti scolastici più bassa;
- Minore efficenza politica.
Sarebbe necessario analizzare le nostre scelte e non inchiodare sul concetto del “io sto scegliendo quel che faccio senza che una pistola mi venga puntata alla tempia, pertanto, la scelta è libera ed è mia”.
Umano è scegliere di fare ciò che è ritenuto normale, dovuto, consigliato e che produce risultati immediatamente positivi (like sui social, accettazione sociale, autostima, apprezzamento), ma questo non vuol dire che sia necessariamente privo di condizionamenti esterni o di processi interiorizzati.
Lasciare che il concetto di “bellezza” e di “sex-appeal” monopolizzino la nostra vita è il gioco malato di un sistema capitalista e consumistico, pensato prettamente per lo sguardo maschile; un sistema che pone la vittima perpetuamente sotto osservazione, imprimendogli l’idea di essere sbagliata, inadeguata e quindi in “dovere” di essere, ma soprattutto di mostrarsi, in un determinato modo. Facendola sentire un corpo. Un corpo che deve essere sexy.
La American Psychological Association (APA) ha pubblicato il “Report of the APA Task Force on the Sexualization of Girls“. L’introduzione del report offre una definizione di sessualizzazione:
si parla di sessualizzazione quando
- il valore di una persona viene fatto derivare soltanto dal suo sex appeal, escludendo altre sue caratteristiche;
- una persona è tenuta a conformarsi ad uno standard, che equipara l’attrazione fisica – intesa in senso stretto – con l’essere sexy;
- le persone sono viste come oggetti adibiti all’uso sessuale altrui, piuttosto che come individui in possesso della capacità di agire e prendere decisioni autonomamente)
- la sessualità è inappropriatamente imposta a qualcuno.
Erin Hatton, PhD, e Mary Nell Trautner, PhD, assistenti universitari del Dipartimento UB di Sociologia, hanno scoperto – che il 71% delle donne presenti, contro il 35% degli uomini, è abbigliato in modo provocante o è nudo. Mentre le ricerche a proposito dei film suggeriscono che, benché la maggioranza dei personaggi presenti nelle pellicole sia di sesso maschile (il 72% di quelli che parlano, l’83% delle voci narranti, l’83% dei figuranti sullo sfondo dell’azione), se andiamo a concentrarci sui corpi nudi, i nudi femminili superano i nudi maschili con un rapporto di 4 a 1.
Le ricerche sui video games ci dicono che sono pochissimi i personaggi di sesso femminile (14%), e la maggioranza di questi è abbigliata con profonde scollature su seni prorompenti.
Gli uomini
Anche nel caso degli uomini esistono condizioni in cui vengano sottoposti al peso dello stereotipo di una rappresentazione distante dalla realtà: fisico atletico, addominali scolpiti, gambe e braccia muscolose, petto depilato etc.
Il processo di oggettificazione, tuttavia, avviene con dinamiche differenti: l’uomo, infatti, non viene mai rappresentato in maniera passiva o sottomessa od alla stregua di un oggetto mirato ad appagare i desideri sessuali altrui, anzi, il modo in cui viene ritratto rafforza i pericolosissimi cliché di genere, secondo cui esista “un modo giusto” di essere uomini e fare gli uomini: “devi essere forte, dominante, arrogante, non osare piangere o chiedere!”.
“Detesto il cliché dell′uomo che non deve chiedere mai, dato che se non chiedi non sai” – canta Caparezza.
Il rapporto tra stima del corpo e stima di sé è una innterazione in stretta correlazione. Se siamo insoddisfatti del nostro corpo, la nostra autostima traballa, ed una bassa autostima è una minaccia per la salute psicofisica. Ci impedisce di compiere moltissimi gesti: dall’uscire di casa, al far valere i nostri diritti, al perseguire e realizzare le proprie ambizioni ed obiettivi.
Siccome la nostra concezione di bellezza è collegata al canone comunemente idealizzato della società, un rapporto sano ed appagante con il nostro corpo, di frequente non risulta possibile. Allo specchio scorgiamo un’immagine distorta a causa di tutti gli stimoli esterni assorbiti durante la nostra vita. A volte identifichiamo noi stessi come un nemico da combattere, un corpo a cui fare la guerra.
Per amarsi e liberarsi dalle catene degli standard irraggiungibili, mettendo fine alla manipolazione studiata a tavolino dalle industrie che traggono il nutrimento dalle insicurezze che creano e ci dettano loro stesse, occorrerà interrompere il ciclo tossico e mortale della valorizzazione dell’estetica, a discapito di tutto il resto.