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Anna Magnani, la “Didone” della settima arte

Nel 1961 il cosmonauta sovietico Jurij Gagarin, approdato nello spazio disse: “Saluto la fraternità degli uomini, il mondo delle arti, e Anna Magnani“.

Un riconoscimento alla Anna Magnani, diva romantica e popolana del dramma e della commedia del cinema italiano e mondiale, cui faranno seguito quelli di insigni rappresentanti del mondo culturale del Novecento come il grande Eduardo, Totò, Pier Paolo Pasolini fino al poeta Giuseppe Ungaretti.

Nata a Porta Pia il 7 marzo 1908, fior fiore di quella romanità tout court di cui resta emblema interpretativo femminile, insieme al trasteverino Aldo Fabrizi e l’Albertone Sordi.

Una romanità mai stringente anche se connotativa, che porterà Anna Magnani lontano.

Dall’esordio da protagonista del 1934 con “La cieca di Sorrento“, rivisitazione cinematografica dell’omonimo romanzo di Mastriani, passando per “Campo de’ Fiori” del 1943 alle ultime ribalte in chiave popolareggiante dei “telefoni bianchi“, spalleggiata da Aldo Fabrizi e Peppino de Filippo, è l’ auge di una battaglia consacratoria.

Un rapporto con la transmodalizzazione, tra letteratura e cinema, che per Anna Magnani ritornerà, insieme ad Eduardo De Filippo, nei panni di Assunta Spina, omonima pellicola diretta da Maurizio Mattioli nel 1948.

La consacrazione totale arriva con Roberto Rossellini nel 1945, in pieno dominio neorealista, con “Roma città aperta“.

Subito premiata col Nastro d’argento, “Nannarella” mette a fuoco l’espressione del dolore umano ed esistenziale, il suo sguardo assurge a sintesi della sofferenza umana durante lo sfacelo nazista.

Unitamente al suo sguardo, assioma performative permane nel grido di dolore delle ultime battute, catarsi sacrificale di un mondo disumanizzato da se stesso.

Una fragilità quasi pirandelliana, che emerge anche in ruoli in pellicola successive, in cui focus principale è proprio il rapporto tra la società degli “ultimi” del secondo dopoguerra come “Abbasso la ricchezza!” e “Abbasso la miseria!“, in cui oggetto è l’Italia della ricostruzione, il consumismo d’importazione e l’auto riflessione sul cruento mondo del cinema con “Bellissima” di Luchino Visconti, fino all’osservazione sul ruolo della donna come elemento partecipe del civile con “L’onorevole Angelina” e “Mamma Roma“.

Il rapporto vita e arte trova altra grande interpretazione con “Risate di gioia” di Mario Monicelli, nelle vesti di Tortorella.

Insieme al principe della risata Totò, la Magnani lascia lo spettatore interrogarsi sulla caducità del successo e della vacuità dell’arte dinanzi al “boom economico“, né esce un sorriso che sà di pianto, uno humor che il “vammoriammazzato” di “Narrarella” cementerà insieme al suo sguardo e la sua voce.

 

 

Domenico Papaccio
Domenico Papaccio
Laureato in lettere moderne presso l'Università degli studi di Napoli Federico II, parlante spagnolo e cultore di storia e arte. "Il giornalismo è il nostro oggi."