La casa di Vincenzo Gemito. Dove il genio si unì alla follia. Calata San Francesco è un’antica pedamentina (nota in passato come l’imbrecciata perché rivestita di brecce e ciottoli ) che collega Vomero e Chiaia. Era l’alveo di un torrente e deve il suo nome al fatto che si “cala”, appunto, dalla collina al mare.
Il primo tratto che inizia da via Belvedere è strada con basolato ma poi dopo l’incrocio con via Aniello Falcone diventa scalinata tagliando in verticale via Tasso, Corso Vittorio Emanuele e via Crispi per raggiungere infine la Riviera di Chiaia.
Ebbene, proprio all’angolo con via Tasso su un palazzo di colore giallo una lapide ricorda uno dei più grandi artisti dell’Ottocento Europeo. Lì collocata dal comitato per le celebrazioni di Napoli nel 1954, recita così:
“Nell’esilio di questa dimora, visse per vent’anni Vincenzo Gemito che una divina follia tenne vicino alla Bellezza non alle miserie della vita”. La casa di Vincenzo Gemito. Dove il genio si unì alla follia.
Napoli, appena uscita dalle miserie della guerra , cercava di riorganizzare la sua memoria storica ed artistica di ex grande capitale della cultura. Ecco allora questa epigrafe per omaggiare uno dei suoi grandi figli. Apposta sulla casa di cui in realtà l’artista occupava appena qualche stanza ed un seminterrato.
Gemito era nato a Napoli nel 1852, abbandonato dai genitori ( mai più conosciuti) nella Ruota degli Esposti della Chiesa dell’Annunziata. Gli fu dato uno dei due cognomi che si davano ai bambini abbandonati , Genito ossia partorito (l’altro era Esposito che deriva da esposto). Ma per un errore di trascrizione all’anagrafe sarebbe stato per sempre il celebre Gemito.
La sua intensa attività artistica, che lo aveva portato all’apice del successo ai Salons di Parigi nel 1876-77, fu interrotta improvvisamente a causa di una violenta crisi personale.
La casa di Via Tasso
Dopo il periodo parigino infatti Gemito nel 1880 era tornato nella sua casa napoletana. Qui pur continuando a lavorare aveva iniziato a manifestare i primi segni di un profondo disagio personale.
Era nella sua casa di via Tasso 124 quando , il 20 agosto 1887, Gemito fu prelevato forzosamente per essere ricoverato in una clinica psichiatrica. Poco prima aveva lanciato con rabbia da una finestra una testa di bronzo su un venditore di giornali.
Era solo uno dei vari episodi di violenza che lo avevano avuto protagonista e che avevano portato i medici a prendere questa decisione.
Le sensazioni dell’artista
Così descriveva il suo stato d’animo : “…Solo avverto come una pressione nel centro della cavità sotto l’osso dello sterno che mi salta nel vuoto del petto una specie di uccello che palpita e batte le ali…”. Al momento di lasciare la sua dimora scrisse così su un biglietto :
“Vomero, 20 agosto 1887. Dichiaro semplicemente, dovendo uscire per forza dalla mia camera di lavoro, che ad ogni evento sulla mia vita, restano padroni di tutta la mia roba e del diritto di riprodurre le mie opere, Nannina Cutolo, mia compagna, con parte maggiore, Peppina Gemito (la figlia) nonché Masto Ciccio e donna Peppina(i genitori adottivi).
Senza che nessuno si possa opporre a tale mia volontà perché è bene definita. I soccorsi per me verranno dati dall’onnipotente. Esco perché il capo della giustizia mi ha mandato a prendere. Perché? Non lo so. Per sua volontà. Io non mi rendo conto di quello che vado a fare”.
Il ricovero
Michele Sciuti, uno dei luminari dell’ospedale psichiatrico Bianchi (che era stato anche il medico di Antonio Mancini) così descrive la sua malattia:
“Fu colpito da una grave forma schizofrenica, con allucinazioni, agitazione, dissociazione mentale, che s’iniziò con un certo grado di preoccupazione e di esaltamento all’epoca della commissione reale [Carlo V]. Era un uomo schizoide, vuol dire che facilmente si dissociava, si isolava, si eccitava, e facilmente aggrediva”.
Inizialmente Gemito viene ricoverato nella clinica Fleurent a Capodichino, dove rimase fino al Maggio 1888 per rinchiudersi successivamente, una volta dimesso, nella casa di via Tasso per ventitré anni, senza mai uscire, sino al 1909. Fu solo dopo la morte della moglie che iniziò nuovamente a uscire di casa.
La follia di Gemito divenne ben presto leggendaria, ed in città un po’ tutti conoscevano «o’ scultore pazzo». Nel frattempo molti personaggi celebri andavano a trovarlo. Tra questi i poeti Salvatore Di Giacomo (che ne pubblicò una monografia nel 1905, con Gemito mito vivente ma «non ancora emerso dal suo crepuscolo tragico») e Gabriele D’Annunzio.
La statua di Carlo V
Non è chiaro cosa abbia fatto sprofondare Gemito nel baratro mentale. Probabile che l’eziologia sia stata multifattoriale. Compresa la vicenda della statua di Carlo V, una delle otto statue dei Re di Napoli commissionate dal Re d’Italia nella 1885 a vari artisti per la facciata di Palazzo Reale.
Tutte le statue dovevano essere concepite in stile accademico, e a Gemito era toccato Carlo V. Un’opera lontana dalla sua sensibilità. Sia per il materiale (marmo, mentre lui amava bronzo e terracotta) sia per il soggetto (storico-celebrativo, mentre lui amava al contrario il verismo degli scugnizzi e delle sue popolane).
Per la realizzazione del monumento Gemito avrebbe dovuto ricevere centoventimila lire in più rate. Ma l’artista entrò subito in crisi, e poco dopo aver iniziato l’opera manifestò evidenti sintomi di esaurimento nervoso che lo portarono a rinchiudersi nella sua casa rifugio.
Gemito dormiva e lavorava in un’unica stanza. Quasi un eremitaggio , se non ci fossero state sempre a vigilarlo attentamente la moglie e la figlia, oltre al patrigno.
L’allora Questore di Napoli, Giuseppe Pennino, per pagare il ricovero si fece consegnare alcune rate del compenso destinato all’artista, e invece se ne appropriò. Alla fine, la statua di Carlo V sarebbe stata completata da alcuni collaboratori, seguendo il bozzetto preparatorio del Maestro.
Malattia mentale o crisi artistico-intellettuale ?
Vincenzo Gemito sarebbe morto nella sua casa il 1° marzo 1929 alle sette del mattino, dicendo che desiderava dormire. Il suo medico si espresse in modo lapidario : “È chiaro che nello stato di schizoidismo difettava lo stato affettivo e la fantasia, perciò … pur lavorando egregiamente, e pur essendo un perfetto tecnico non produsse nulla di nuovo”.
Un giudizio medico associato dunque ad un parere artistico. Per quanto riguarda il primo, siamo certi che con i progressi della medicina in generale e della psichiatria in particolare, oggi Gemito sarebbe stato curato diversamente. Certo non con l’idroterapia che pare gli venisse praticata. E forse anche la diagnosi sarebbe stata diversa.
Per quanto riguarda invece il secondo giudizio, è stato abbondantemente contraddetto dalla fortuna critica e dal successo inarrestabile di questo grandissimo artista. Come sempre, il tempo è il vero giudice. Specie se si tratta di arte, anzi di autentica arte. Eppure nei volti dell’artista non trapela nulla del suo tormento e del suo disagio. Nulla della divina follia che traspare invece nei versi di Holderlin o nelle pennellate di Van Gogh.
Gemito ormai è universalmente considerato uno dei più grandi artisti dell’Ottocento. Lui che riteneva la sua casa al contempo rifugio dal mondo ma anche luogo prediletto per l’ispirazione artistica . Via Tasso 124, Napoli. La casa di Vincenzo Gemito. Dove il genio si unì alla follia. Anzi, alla divina follia