Il 12 aprile 1633 ebbe inizio il processo a Galileo Galilei, accusato di voler sovvertire la filosofia naturale aristotelica e le Sacre scritture.
Dopo aver pubblicato il Dialogo sui due Massimi Sistemi del Mondo, con cui s’impegnava a sostenere la diffusione delle teorie copernicane sul moto dei corpi celesti, Galilei finì nel mirino del tribunale dell’Inquisizione, che lo mise sotto processo per eresia.
Si trattava di una vera e propria opera di divulgazione e non un trattato scientifico; l’opera è considerata un pilastro della moderna concezione scientifica (detta galileiana), non solo per il contenuto, ma anche per la forma, che conciliava linguaggio e semplicità divulgativa. Prima ancora di essere un trattato scientifico, si presentava come una grande opera filosofica scritta in volgare, in modo che tutti potessero comprenderla.
In realtà Galileo, già prima del 12 aprile ricevette una prima ammonizione formale dal cardinale Bellarmino, ma non abbandonò le proprie convinzioni, scrivendo poi l’opera incriminata. L’accusa fu quella di non avere seguito il “precetto” del cardinale Bellarmino che gli intimava di non sostenere o insegnare la teoria copernicana, secondo la quale si ritiene, in dicotomia alle scritture, che la terra si muove intorno al sole, il quale è immobile. Dopo la condanna, Galileo fu chiamato a Roma e processato dall’Inquisizione.
Galileo fu interrogato più volte. Dapprima tentò ancora di difendere le proprie idee. Infine, stanco, malato e sfiduciato, ammise i suoi “errori”, dichiarando di credere nella teoria tolemaica. Per questo motivo nel 1633 fu costretto ad abiurare le sue teorie e passò gli ultimi anni della sua vita agli arresti domiciliari. L’abiura lo salvò dalla tortura e forse dal rogo.
Episodi che causarono una forte tensione tra scienza e religione, l’avvio verso una “nuova epoca”, all’interno della quale la scienza assumeva un ruolo centrale.
Il Dialogo fu proibito e lo scienziato fu costretto a pronunciare la famosa abiura, la cui parte finale recitava: “Con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li suddetti errori et heresie e generalmente ogni et qualunque altro errore, heresia e setta contraria alla Santa Chiesa; e giuro che per l’avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o in scritto, cose per le quali si possa haver di me simil sospitione”.
Una condanna, quella del 12 aprile 1633 per la quale ancora oggi il mondo accademico s’interroga, probabilmente troppo dura, dettata da motivi politici e personali (tra i quali anche le amicizie di Galileo Galilei).