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Laes: perché cantiamo l’aeroporto siamo noi

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In questi mesi di emergenza e crisi dilagante, facendoci strada nella fitta giungla di esclusioni e paletti all’elargizione dei sussidi, come Lavoratori Aeroportuali Stagionali possiamo dire di aver raggiunto qualche piccolo grande risultato.

Il primo di questi risultati è stato affermare noi stessi, uscire allo scoperto e mettere le istituzioni tutte – a livello nazionale e regionale – davanti alla realtà dei fatti, ovvero che una cosa è non vedere chi è invisibile e ben altra cosa è ignorare chi ha pochi mezzi per tutelare sé stesso e il proprio lavoro. Essere riusciti a farci ascoltare è un grande risultato, perché quello che da oggi in poi ci sarà riconosciuto o meno, sarà una scelta della quale ognuno dovrà assumersi la responsabilità.

Il secondo risultato, e forse anche il più importante, è stato riconoscere noi stessi e riconoscere a noi stessi il diritto di lottare per un presente dignitoso e un futuro all’altezza dei nostri sogni. E non è stato affatto facile.

Non contiamo più quante volte ci siamo sentiti dire in questi mesi che in fondo noi stagionali abbiamo accettato consapevolmente un lavoro comodo e poco impegnativo, che la vita di noi stagionali è bella – perché, chi è che non desidera lavorare 6 mesi l’anno e poi riposare tranquillamente in vacanza andando a svernare in qualche isola caraibica? Beh, ogni lavoro ha i suoi pro e i suoi contro, ma fermandosi un attimo a riflettere, andando un po’ più in profondità, sono sicura che non tutti resisterebbero alla meravigliosa vita da stagionale.

Essere uno stagionale aeroportuale significa entrare in un sistema chiuso e complesso, acquisirne le dinamiche e le procedure, imparare a relazionarsi con passeggeri di diversa provenienza, trovare risposte alle domande più imprevedibili, rinunciare a tutte le tue estati, lavorare spesso in condizioni di sovraffollamento dei terminal mettendoci attenzione e professionalità, anche se sai che in pochi mesi il tuo contratto andrà in scadenza e che nessuno ti garantisce che quel lavoro che fai così bene e con tanta passione potrà mai essere veramente tuo.

Per gli altri 6 mesi dell’anno, essere uno stagionale aeroportuale significa vivere con un sussidio di disoccupazione che, se tutto va bene, finirà ancor prima che sarà finito l’inverno. Nel tempo che rimane fino all’estate successiva, resti in attesa della chiamata di lavoro.

In fin dei conti, essere uno stagionale aeroportuale è un po’ come vivere una doppia vita. Una che ti coinvolge a ritmi forsennati, che ti fa sentire parte della “famiglia” e parte del mondo, che ti insegna ogni giorno qualcosa, che ti fa crescere e migliorare. L’altra vita, invece, è quella delle privazioni, dei soldi razionati, del finanziamento a cui non puoi accedere, del progetto che per realizzarlo devi sempre aspettare che si allineino i pianeti a tuo favore e che quel benedetto telefono squilli.

Per anni, siamo stati in balia di questo bipolarismo esistenziale, che ci ha fatto sentire lavoratori, ma non del tutto; ci ha fatto sentire aeroportuali, ma non del tutto; che ci ha fatto sentire soddisfatti, ma non del tutto.

Lo scoppio della pandemia ha scosso le fondamenta di molte vite, ma per noi è stato qualcosa di più. La lotta per il riconoscimento della nostra categoria e per i sussidi dai quali siamo stati ingiustamente esclusi, hanno radici più profonde di un’estate di lavoro persa. La pandemia ci ha resi consapevoli di quello che abbiamo sempre saputo, ma che non abbiamo mai avuto la forza di affrontare. Ovvero, che il nostro lockdown non è iniziato a marzo 2020, ma dura da anni. La nostra invisibilità è stata prima quella del precariato, perché a detta di molti, questo è il futuro del lavoro e non puoi desiderare di meglio. Poi abbiamo sperimentato l’invisibilità da precario stagionale (merito dell’INPS e della logica dei codici Ateco), perché i lavoratori non sono mica tutti uguali. Insomma, basta vedere all’interno di un’unica azienda quanti contratti diversi esistono per lavoratori che svolgono le stesse mansioni, per rendersi conto che nelle definizioni dei lavoratori, quale che sia la dicitura sul nostro contratto, noi saremo sempre “altro”.  Infine, l’invisibilità da Covid-19, quella del lockdown fisico, che ci ha visti chiusi in casa per oltre un mese senza la possibilità di farci vedere, nei nostri numeri e nel nostro entusiasmo di combattere, e soprattutto di lavorare.

Questa pandemia ci ha insegnato a riconoscerci, ad unirci e a condividere le nostre paure e le nostre ambizioni; ci ha aperto gli occhi su quanto sia importante fare della lotta per i propri diritti un impegno comune; ci ha spinto a studiare ed imparare molto sulla nostra condizione affinché possa sempre migliorare per noi e per chi verrà dopo di noi; ci ha mostrato brutalmente quanto il nostro lavoro e il nostro impegno siano stati così poco considerati negli anni; ci ha insegnato che pretendere quello che ci spetta, non è prepotenza, ma rispetto per noi stessi e per il lavoro che facciamo. Che nessuno si senta offeso se ci prendiamo i nostri meriti. Uno degli aspetti cruciali della nostra lotta è proprio l’affermazione di un principio di uguaglianza tra lavoratori, che non ci divida, che non ci intrappoli in una gerarchia tra pariah, che ci consenta di aiutarci l’un l’altro senza sentirsi minacciati, ma solo più forti.

Questo è quello che esprimiamo nelle nostre lettere e nelle nostre manifestazioni. Il nostro lavoro ha valore, che si traduce in milioni di passeggeri transitati negli aeroporti italiani, in milioni di euro fatturati, in prestigio e riqualificazione del nostro Paese. Il Bel Paese siamo anche noi. L’eccellenza siamo anche noi. Il futuro siamo anche noi.

Per tutti questi motivi, a diritto e a gran voce diciamo, L’Aeroporto siamo noi!