Le Idi di marzo, giorno noto per l’assassinio di Cesare, cade il 15 del mese.
Il 44 a.C. un gruppo di venti senatori conservatori repubblicani, temerono che Cesare volesse diventare re di Roma assumendo il potere, così fu ordita una congiura a suo danno, con a capo Gaio Cassio, Marco e Decimo bruto. Tra coloro che tramarono contro Cesare ci furono anche suoi alleati, spinti da motivazioni personali.
Da questa vicenda la celebre citazione “tu quoque, Brute, fili mi!” (“anche tu, o Bruto, figlio mio!”) pronunciata da Cesare esanime, mentre Marco Giunio Bruto si avventava su di lui, colpito da una persona da cui non si sarebbe mai aspettato un’azione di tale fatta, una persona che amava come un figlio.
Cesare si stava difendendo strenuamente ma non appena si rese conto che a complottare contro di lui c’era Bruto si arrestò come rassegnato, coprendosi il capo con la toga. Decretò a quel punto non valesse più la pena vivere, un aneddoto raccontato anche da Plutarco, nell’opera “Vite parallele”. Sarebbero poi seguite 25 coltellate a togliergli la vita.
Bruto è inserito anche da Dante nel suo Inferno, assieme a Cassio, altro cospiratore, e Giuda, tutti annoverati come simbolo di tradimento. Un episodio, quello delle Idi di marzo, trattato da molti poeti e scrittori, tra cui Valerio Massimo Manfredi, che ne scrive con ricchezza e grande realismo.
Si è anche supposto che il Bruto a cui faceva riferimento Cesare non fosse quello già citato ma un altro, Decimo Giunio Bruto Albino, il quale godeva dell’affetto e della protezione di Cesare e in cui aveva riposto la sua fiducia, differentemente dal primo. Gli aveva infatti assegnato la gestione della Gallia Cisalpina, iscrivendolo persino in veste di erede nel suo testamento.
Il termine “cesaricidio” ha assunto col tempo un significato più ampio, intendendo col suo utilizzo l’estrema difesa di libertà civili minacciate dal potere di un singolo o di atto conseguito con lo scopo di preservare i valori della tradizione, messa in pericolo da un tiranno.