70 anni fa Cesare Pavese decise di togliersi la vita, il 27 agosto del 1950. Lo strumento per metter fine alla propria vita, una dose massiccia di barbiturici, presi in una solitaria camera di un albergo torinese, l’Hotel Roma.
È da poco stato pubblicato il suo ultimo romanzo dal titolo “La luna e il Falò”, un romanzo che sembra essere un addio a tutto ciò che lo aveva attratto nell’infanzia.
Solo due mesi prima aveva vinto con il suo “La bella estate”, pubblicato nel 1949 ma scritto nel 1940, il premio Strega.
Il suo ultimo messaggio affidato al frontespizio di quello che fu uno dei suoi libri preferiti “Dialoghi con Leucò”, su cui scrisse testualmente: «Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi».
Ma chi era Cesare Pavese?
Pavese nasce il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo, un paese di piccoli agricoltori delle Langhe, da genitori borghesi di origini contadine. La sua indole sensibile, fa si che soffra, come i protagonisti dei suoi futuri romanzi, di un continuo e inappagato bisogno d’amore.
Vivrà come scrittore e intellettuale antifascista un esistenza densa di successi professionali e di delusioni sentimentali. Ci saranno, per citarne alcune, Tina nel ’29, Fernanda nel ’40, Bianca nel ’45, Constance nel ’50. Questo lo porterà a soffrire di depressione, che si aggraverà maggiormente a causa della sua incapacità di avere rapporti umani. Uno status mentale che si rivedrà nei suoi romanzi in cui, pur narrando delle tradizioni, le vicende, la natura, le parole, le memorie, i drammi della gente delle Langhe, tra le righe trasparirà sempre il vuoto e lo smarrimento della sua vita, quel senso di impotenza nei confronti della propria esistenza.
È tuttavia una personalità estremamente originale, un individuo costantemente in conflitto con la società, impegnato nel sociale che crede nel mito di un’umanità nuova, in cui profondamente radicato è il principio dell’autodistruzione e che ha l’amore come meta irraggiungibile. I suoi romanzi e i suoi versi sono scarni, essenziali, originali e rappresentano un capitolo importante nella letteratura italiana del dopoguerra.
L’idea del suicidio
Come già detto, la vita di Pavese fu una vita tormentata e infelice, che vede nel suicidio l’unica via d’uscita, specie per le pene d’amore. È un pensiero che spesso si affaccia nella mente dello scrittore, che vede il gesto come qualcosa di eroico da parte dell’uomo che soffre, una sorta di rivalsa nei confronti del destino.
L’occasione giusta gli si presenta con la delusine d’amore del 1949. Anno in cui si innammorerà perdutamente dell’attrice americana Constance Downing, un sentimento non ricambiato. Quando la donna torna in America, Pavese si toglie la vita. In un certo senso annuncerà il suo suicidio, affidandola alle pagine del suo diario in cui scriverà: «Tutto fa schifo… Non scriverò più». La morte dello scrittore che preannuncerà quella dell’uomo.