Il 7 marzo 1876 Alexander Graham Bell depositò il brevetto per proteggere “il metodo e l’apparato per trasmettere la voce o altri suoni per mezzo di ondulazioni elettriche”, stiamo parlando del telefono.
L’invenzione del telefono
Il 3 marzo 1847 nasce a Edimburgo Alexander Graham Bell. Il suo nome è legato al brevetto numero 174.465, depositato il 7 marzo 1876. Egli aveva inventato il telefono. In realtà le cose non andarono esattamente così.
Il telefono, infatti, risulta essere un’invenzione tutta italiana. Il fiorentino Antonio Meucci, emigrato a New York, già nel 1854 aveva costruito il primo prototipo, il telettrofono, che usava in casa per comunicare con la moglie confinata a letto da un’artrite deformante.
Egli nel 1871 era riuscito a depositare un brevetto temporaneo al prezzo di 10 dollari l’anno, non potendo permettersi quello definitivo. Riuscì a pagare il brevetto del suo telefono solo due volte. Nessuna compagnia telegrafica accettò di finanziarlo.
Così più tardi Alexander Graham Bell, che forse aveva visto il progetto di Meucci, depositò il brevetto e per molti anni è stato considerato l’inventore del telefono.
La causa
L’italiano Meucci denunciò Bell ma perse la causa. La Corte Suprema degli Stati Uniti gli diede ragione nel 1887, ma era ormai troppo tardi. Bell aveva avviato la Bell Telephone Company, da cui ebbe origine la moderna AT&T (American Telephone and Telegraph) prima industria delle telecomunicazioni, divenuta con il tempo una delle più importanti d’America.
Meucci morì nel 1889 e il brevetto Bell, che scadeva nel 1893, non fu più contestato fino al 2002 quando a pronunciarsi fu il Congresso degli Stati Uniti che riconobbe all’italiano la paternità del telefono.
Nella motivazione del riconoscimento si legge che Meucci, vivendo in povertà, non poté commercializzare l’invenzione, pur avendone fornita una dimostrazione già nel 1860.
La casa di Meucci
A Long Island, vi è la casa in cui visse Meucci. Questa oggi ospita un piccolo museo che celebra, oltre al suo genio, l’amicizia con Giuseppe Garibaldi. Quest’ultimo aveva lavorato nella sua piccola fabbrica di candele e di Meucci disse: “Il mio amico Antonio Meucci, fiorentino e brav’uomo, benché lavorante suo, mi trattò come uno della famiglia e con molta amorevolezza”.
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