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27 maggio 1840: moriva Niccoló Paganini

Il 27 maggio del 1840 morì Niccoló Paganini.

Forse non tutti sanno che il celebre compositore non morì in Italia, bensì in Francia, a Nizza.

Il violinista genovese, amato è stimato in ogni dove, fu improvvisamente colpito da una grave ed invalidante malattia; l’inizio di un vero e proprio calvario iniziato nel 1834 quando i medici capirono che si trattasse in realtà di tubercolosi. Dopo lunghi mesi di sofferenza, Paganini morì il 27 maggio del 1834, come detto a Nizza, in casa del presidente del Senato.

Il vescovo di Nizza, a causa delle voci sul conto di Paganini, si pensava che il celebre violinista avesse fatto “un patto con il diavolo”, impose che la sepoltura non avvenisse in terra consacrata, motivo per il quale il suo corpo venne imbalsamato e conservato nella cantina dell’abitazione dove aveva vissuto.

Successivamente, dopo vari spostamenti nel 1853 Paganini fu sepolto nel cimitero di Gaione e poi in quello della Villetta di Parma.

Il 27 maggio del 1840 moriva un grande musicista

La figura di Paganini era spesso associata a Satana: si diceva che avesse stipulato un patto con il demonio per poter suonare in quel modo. Una associazione che secondo molti trovava ancor più senso nell’aspetto gracile, pallido e anche nel “singolare” modo di vestire del musicista, che prediligeva il nero.

Quando Paganini suonava sul palcoscenico si calava nel personaggio del violinista acuto ed immenso. Così come tutti ancora lo ricordano.

Riascoltando i brani del compositore sembra quasi di avvertirne e carpirne l’essenza.

Quella bravura. Quell’impegno. Tutto ciò che contribuiva e ancora oggi delinea l’identità di un musicista senza tempo.

Le sue magistrali esecuzioni incantarono i colleghi dell’epoca: «Ho sentito cantare un angelo», disse Franz Schubert, senza dimenticare il simpatico ma non meno lusinghiero commento di Gioacchino Rossini: «Solo due volte ho pianto in vita mia: quando un tacchino infarcito di tartufi mi cadde accidentalmente nell’acqua e quando sentii suonare Paganini».

Una personalità forte quella di Niccoló Paganini, denotata da una delle frasi più rappresentative pronunciata dal musicista. Oggi utilizzata come vera e propria “massima”.

Chi non conosce il celebre detto: Paganini non ripete! Esso ebbe origine nel febbraio del 1818 al Teatro Carignano di Torino, quando Carlo Felice di Savoia, dopo aver assistito a un concerto di Paganini, fece pregare il maestro di ripetere un brano. Paganini, che amava improvvisare gran parte dei brani che eseguiva, gli fece rispondere appunto che «Paganini non ripete». Per questo motivo gli fu negato il permesso di eseguire un terzo concerto in programma.

Il 27 maggio del 1840 si ricorda la morte di un grande “intellettuale” della musica, spesso definito un “divo strumentale”.

Per mostrare le sue doti di violinista, Paganini aveva l’abitudine di incidere le corde dei violini che utilizzava durante i concerti, in modo tale che si rompessero quasi tutte tranne l’ultima. Ciò aveva lo scopo di mostrare la sua versatilità. Il fatto che proprio la quarta corda fosse lasciata integra non è casuale: il sol rappresenta la corda più espressiva del violino e con il suo suono neutro permette di passare dal grave all’acuto in modo morbido.

Una personalità sicuramente acuta, caratterizzata da tanti spostamenti, tanto che il noto musicista è stato più volte definito “nomade”, proprio per i suoi continui viaggi.

Gli ultimi mesi prima di morire furono drammatici, tant’è che ad una personalità illustre al proprio capezzale, Paganini, visibilmente sofferente e provato, pronunció una delle sue ultime frasi: “Voglio che la mia musica sia suonata nelle generazioni future così da vivere per sempre”.

Ed è così, la sua musica vive ancora e oggi rappresenta un legame indissolubile con il passato. Quel 27 maggio del 1840 il cuore del violinista smise di battere ma oggigiorno quando si ripensa al – suo genio – o semplicemente si ascoltano i suoi brani, il cuore riprende a pulsare.

Paganini, nonostante la celebrità e la bravura innata, fu spesso denigrato ed emarginato, sia per il suo atteggiamento distaccato, sia per le condizioni fisiche invalidanti.
Ma l’artista non si diede per vinto,  non si arrese alla sua condizione e, molto prima che il concetto di inclusione fosse acquisito dalla società, lottò per affermarsi, sublimando la malattia in musica.

E quella musica non ha mai smesso di emozionare e non conosce limiti di nessun genere.