É una storia recente, avvolta da quell’amarezza di sapere che chi dovrebbe essere tutore dell’ordine in alcuni casi sa divenire carnefice: è il caso di Federico Aldovrandi.
Sono passati sedicianni dal giorno in cui, pocho tempo dopo l’arresto il giovane diciottenne perdeva la vita.
Ripercorriamo insieme le tappe di un caso della storia moderna italiana che ha creato non poco scalpore.
Federico Aldovrandi era un giovane di Ferrara nato da un agente di polizia municipale e da un’ impiegata comunale.
Frequantava la scuola, aveva scelto l’Itis per l’elettrica, chi lo conosceva racconta di un ragazzo impegnato nel sociale, tanto da far parte di un progetto della Asl ferrarese per la prevenzione delle tossicodipendenze. Tifoso della squadra di calcio cittadina, la Spal, amava la la musica, suonava anche il clarinetto. Un ragazzo normale che, se quella sera del 25 settembre fosse andato tutto nel verso giusto, era prossimo a sostenere l’esame per la patente.
Ma le cose sono andate nel modo peggiore immaginabile.
La sera del 24 settembre Federico era andato ad ascoltare un concerto di musica reggae presso un centro sociale di Bologna.
Gli esiti delle analisi post morte raccontaeranno di una modesta assunzione di droghe e alcool.
É lucido quando, per fare quattro passi, tornato a Ferrara, si fa lasciare dagli amici presso via Ippodromo, non lontano da casa. In quel momento era di pattuglia per la zona una macchina di polizia con due agenti.
Inizia così la tragica vicenda.
I due polizziotti fermano il ragazzo. In sede processuale i due agenti diranno che Aldrovandi era un “invasato violento in evidente stato di agitazione”. Dichiareranno inoltre di esser stati aggrediti e per questo motivo costretti a chiamare rinforzi. Giunge in breve tempo in via Ippodromo un’altra volante con a bordo due agenti. Inizia una collutazione al termine della quale vengono ritrovati due manganelli in dotazione alle forze dell’ordine spezzati.
Sono da poco passate le sei del mattino quando gli agenti chiamano un’ambulanza che, in pochi minuti, raggiunge via Ippodromo. I sanitari dichiarano di aver trovato Aldrovandi “riverso a terra, prono con le mani ammanettate dietro la schiena”. Provano a rianimarlo. Ma poco dopo ne accertano la morte per “arresto cardio-respiratorio e trauma cranico-facciale”.
La vicenda non può che peggiorare. I genitori non avendo notizie del ragazzo cominciano a chiamare ospedali e questura per avere notizie, solo alle 11:00 di quella triste mattina sapranno del destino del loro figlio.
Gli verrà detto che la causa del decesso è un malore. La famiglia però non si convince, specie dopo aver visto il corpo di Federico coperto di 54 tra lesioni e echimosi.
È a marzo del 2006 che i nomi dei quattro agenti intervenuti la mattina del 25 settembre in via Ippodromo vengono iscritti sul registro degli indagati con l’accusa di omicidio colposo.
La posizione degli agenti viene aggravata dalla testimonianza di una donna originaria del Camerun che abita in zona, la quale raccontò di aver assistito ad alcune fasi dello scontro. Intanto, nel corso del processo, una nuova perizia escluse qualsiasi legame tra la morte di Federico e l’assunzione di droghe. Nel gennaio del 2007 i quattro agenti vennero rinviati a giudizio per omicidio colposo.
Il processo iniziò ad ottobre dello stesso anno ed è un escalation di colpi di scena. Si scoprì, ad esempio, che il pm non aveva fatto alcun sopralluogo in via Ippodromo, che l’auto della polizia contro la quale, secondo la questura, Federico si sarebbe ferito da solo alla testa, non era stata sequestrata, così come i manganelli, di cui due rotti, e che il nastro con le comunicazioni tra la centrale e la pattuglia presente intervenuta era stato messo a disposizione della Procura solo molto tempo dopo i fatti. I giudici, poi, accolsero la perizia del professor Gustavo Thiene dell’Università di Padova, secondo cui la morte di Aldrovandi è stata causata da una asfissia per compressione toracica.
I tre gradi di giudizio sono in accordo, gli agenti vengono condannati, in via definitiva dalla Cassazione nel 2012, per eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi.
A causa dell’indulto però dei 42 mesi previsti di condanna 36 vengono a decadere.
Nel gennaio del 2014, tre degli agenti ritornano in serviziola sera in cui perse la vita Federico Aldovrandi, a occuparsi in ufficio di faccende amministrative per la polizia in sedi lontane da Ferrara. Solo uno dei quattro resta a casa, a causa di una cura per “nevrosi reattiva”