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23 maggio 1992: muore Giovanni Falcone “eroe” e protagonista indiscusso dell’antimafia

Il 23 maggio del 1992 ha segnato una delle pagine più buie della storia della Repubblica: muore il giudice antimafia Giovanni Falcone.

Sono quasi le sei del pomeriggio è un giorno tipico primaverile e sull’autostrada A29 che dall’aeroporto di Punta Raisi, in Sicilia, porta a Palermo, viaggiano tre Fiat Croma. A bordo, ci sono il giudice antimafia Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, e gli agenti Vito Schifani, Rocco Dicilio e Antonino Montinaro. Con loro, gli altri membri della scorta Paolo Capuzza, Angelo Corbo e Gaspare Cervello, assieme all’autista giudiziario Giuseppe Costanza. Proprio verso lo svincolo per Capaci, si consumerà da lì a poco la strage più grande della storia dell’antimafia italiana, l’uccisione organizzata del giudice Giovanni Falcone.

Finiva in quel modo la vita di uno dei più grandi protagonisti della lotta alla mafia. Un “giustiziere” coraggioso,  temerario, che sapeva già di rischiare  la sua vita  per la giustizia e la lealtà, ma continuava a testa alta a fare il suo mestiere egregiamente. Uomo consapevole ma onesto nei confronti della sua vocazione, un uomo che sapeva guardare in faccia il male senza codardia. Lui e Paolo Borsellino furono definiti eroi indiscussi e indipendenti di un’associazione mafiosa criminale senza precedenti, a loro dobbiamo libertà e giustizia.

Giovanni Falcone morì il 23 maggio 1992 con onore e coraggio.

Era nato a Palermo il 18 maggio del 1939. Nel 1961 si laureò in giurisprudenza; tre anni dopo fu nominato pretore nella città di Lentini, quindi sostituto procuratore a Trapani. Alla procura di Palermo il magistrato arrivò nel 1978, avviando una stretta collaborazione con i giudici Rocco Chinnici e Paolo Borsellino: insieme tratteranno centinaia di processi. Nel 1980 a Falcone venne assegnato il fascicolo che riguardava il boss Rosario Spatola, i cui interessi avevano ramificazioni anche negli Stati Uniti. Dopo l’assassinio di Chinnici, nel 1983, venne creata una struttura che, nel giro di pochi anni, rivoluzionerà la lotta alla criminalità organizzata: il pool antimafia.

Giovanni Falcone era in possesso di una quantità gigantesca di informazioni. Un uomo con un enorme senso di giustizia.

I mafiosi ne erano a conoscenza e per questo lo misero nel mirino, cominciando con l’assassinio di Giuseppe Montana e Ninni Cassarà, due tra i suoi più stretti collaboratori. Per ragioni di sicurezza, quindi, il governo impone ai giudici del pool e alle loro famiglie di trasferirsi in totale segretezza presso il carcere dell’Asinara. L’unico posto ritenuto sicuro per poter far continuare il lavoro ai magistrati e non indebolire l’impianto accusatorio che costituirà la base del “maxi-processo”, avviato alla fine degli anni Ottanta nell’aula bunker del tribunale di Palermo.

Si è trattato del più grande processo contro la criminalità organizzata mafiosa mai tenuto al mondo: 460 imputati, 200 avvocati difensori, quasi sei anni di lavoro. Conclusi con 19 ergastoli e pene per un totale di 2.665 anni di reclusione. Per la mafia è un colpo devastante, ma molti boss, all’epoca, erano ancora latitanti. Tra di loro, il “capo dei capi”: Totò Riina, che presiedeva le riunioni delle “commissioni” di Cosa Nostra. È in questo contesto che, tra il settembre e il dicembre del 1991, si decise di uccidere Falcone, assieme al ministro della Giustizia dell’epoca, Claudio Martelli, e al presentatore televisivo Maurizio Costanzo, vittima a sua volta di un attentato dal quale si salvò per miracolo.

La strage di Capaci suscitò in tutta Italia un’ondata di sdegno. Ciò nonostante, Cosa Nostra non si arrestò, finendo per colpire anche il collega e amico di Falcone, Paolo Borsellino, che aveva raccolto il testimone delle indagini. Il giudice sapeva di essere condannato e non a caso ripeteva ai suoi, lavorando giorno e notte, nelle ultime settimane di vita: “Ho poco tempo”. Anche lui sarà ucciso dal tritolo mafioso, il 19 luglio 1992, in via D’Amelio, dove si era recato per andare a trovare la madre. Una Fiat 126 imbottita di esplosivo spezzò la vita di Borsellino, cico orire, Borsellino ricordò Falcone in un discorso nell’atrio della biblioteca comunale di Palermo, attaccando duramente lo stato e le sue istituzioni. Parlando di “qualche Giuda che lo ha preso in giro” e affermando che “la sua morte l’avevo in qualche modo messa in conto”. Con Borsellino, se ne andò in quella calda giornata siciliana il più importante collega di Giovanni Falcone.

Il 23 maggio 1992 è una data che gli italiani non scorderanno mai.

Ricordiamo con onore e fierezza una delle sue massime più importanti e preziose: “Chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola.”