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172 anni fa, il “Manifesto del Partito Comunista”

Il 21 febbraio 1848 veniva pubblicato a Londra il Manifesto del Partito Comunista scritto da Karl Marx e Friedrich Engels. Commissionato dalla Lega dei Comunisti, il documento esprimeva il loro progetto politico analizzando la storia come lotta di classe, da sempre combattuta tra oppressi ed oppressori.

Protagoniste di questo conflitto, inasprito dalle enormi trasformazioni sociali scaturite dall’industrializzazione, secondo Marx ed Engels, sono solo due: borghesia e proletariato. La prima, avendo preso il comando della struttura economica e politica esistente fino all’inizio dell’età moderna, si era imposta come classe dominante durante la rivoluzione industriale ed avrebbe basato il proprio potere sullo sfruttamento del proletariato.

Il capitalismo come modello economico introdotto dalla borghesia sarebbe stato prima o poi abbattuto dal proletariato, destinato a crescere sempre di più con l’ingresso tra le sue file di gruppi di piccola-media borghesia e di borghesia declassata e ad essere sempre più coeso dalla comune esigenza di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori.

Successivamente, nella lettera a Joseph Weydemeyer nel 1852 e nella Critica del Programma di Gotha del 1875, Marx userà poi l’espressione “dittatura del proletariato”, in riferimento alla necessaria fase di transizione durante la quale le associazioni operaie avrebbero utilizzato i mezzi di produzione borghese messi a disposizione dallo Stato.

Solo dopo questa fase transitoria, il comunismo sarebbe diventato una realtà: sarebbe nata così una società senza classi, senza sfruttatori e sfruttati, in cui i mezzi di produzione sono gestiti dai lavoratori. Sparita la lotta di classe, infatti, sarebbe sparito anche il contesto nel quale essa si sviluppava, cioè lo Stato.

Il programma rivoluzionario contenuto nel Manifesto, era composto da dieci punti:

  • espropriazione della proprietà fondiaria ed impiego della rendita fondiaria per le spese dello Stato;
  • imposta fortemente progressiva;
  • abolizione del diritto di successione;
  • confisca della proprietà di tutti gli emigrati e ribelli;
  • accentramento del credito in mano allo Stato mediante una banca nazionale con capitale dello Stato e monopolio esclusivo;
  • accentramento di tutti i mezzi di trasporto in mano allo Stato;
  • moltiplicazione delle fabbriche nazionali, degli strumenti di produzione, dissodamento e miglioramento dei terreni secondo un piano collettivo;
  • eguale obbligo di lavoro per tutti, costituzione di eserciti industriali, specialmente per l’agricoltura;
  • unificazione dell’esercizio dell’agricoltura e dell’industria, misure atte ad eliminare gradualmente l’antagonismo fra città e campagna;
  • istruzione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli. Eliminazione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche nella sua forma attuale.

Accolti in pieno dagli Stati marxisti-leninisti del Novecento (come Unione Sovietica, Cina, Corea del Nord e Cuba), tali principi costituiscono ancora oggi le fondamenta del comunismo descritto da Marx, che avrebbe garantito la libera associazione dei produttori. Gli oppositori del marxismo ravvisarono nella statalizzazione dei mezzi di produzione una propaganda al dominio e intervento dello Stato (sia dal punto di vista politico sia economico).

Lo storico testo si conclude con l’esortazione ad un’alleanza tra i partiti dei vari Paesi in quanto i proletari delle diverse nazioni hanno obiettivi comuni e quindi devono unirsi. Concezione da cui nascerà il famoso appello (divenuto poi motto dell’Unione Sovietica): “Proletari di tutto il mondo, unitevi!”.