Tommaso Aniello d’Amalfi, meglio conosciuto come Masaniello, nacque a Napoli nel 1620, in una casa poco distante dalla popolarissima piazza del mercato.
L’epopea del Che Guevara partenopeo che, da pescivendolo, divenne guida della rivolta napoletana del 1647. Fino alla pazzia a alla morte per mano di uomini che credeva amici.
Ucciso perché considerato pazzo, mentre voleva solo rivendicare i suoi diritti a tutti se stesso e della sua classe sociale.
Il ribelle pescivendolo non si distingueva dai coetanei del suo ceto per essere particolarmente dissoluto, o violento, come vogliono gli storici ma nemmeno la sua vivacità e l’inventiva, lasciavano presagire le qualità singolari che lo portarono a capeggiare il maggior tumulto popolare del dominio spagnolo in Napoli.
Per la sua attività di contrabbandiere conobbe ripetutamente le carceri dell’ “arrendamento”, ma questo era fatto troppo usuale per chi doveva strappare il pane quotidiano ai gabellieri, perché gliene venisse verso i nobili e gli Spagnoli una ostilità più forte di quella generica e tradizionale della plebe. In carcere conobbe però un seguace del vecchio agitatore Giulio Genoino, il dottor Marco Vitale, che gli indicò nel “malgoverno” dei nobili, sostenuti dai viceré spagnoli, la causa delle sue disgrazie e di quelle di tutto il popolo napoletano. Ancora più efficace nell’alimentare in Masaniello un sentimento di rivolta fu l’appassionata predicazione dello stesso Genoino, che conobbe non molto prima dei moti del 1647. Giulio Genoino era stato il protagonista dei tumulti antinobiliari del 1620, favoriti anche dal viceré duca d’Ossuna: le persecuzioni dei nobili e il carcere spagnolo che aveva dovuto sopportare non avevano spento in lui la speranza di vedere attuato il suo utopistico sogno di un pareggiamento dei popolari ai nobili nel governo di Napoli, e si era venuto acquistando, con le sue violente invettive contro la prepotenza dei nobili, numerosi seguaci tra il “popolo civile”, piccoli avvocati, mercanti e artigiani insofferenti di essere esclusi dal governo della città.
Fu il legame trovato dal Genoino con la plebe cittadina. Si ignorano i particolari dei rapporti tra il vecchio agitatore e prima dei tumulti, ma durante questi il Genoino fu l’immancabile consigliere del giovane: così si spiega anche il “miracolo” della saggezza e dell’equilibrio dimostrati nei provvedimenti presi i primi giorni della rivolta.
Questa scoppiò improvvisa il 7 luglio 1647, ma senza dubbio era stata preparata già da qualche tempo. Un mese prima (6 giugno) era stato bruciato da uno sconosciuto un posto daziario e se ne vantò poi come di una propria impresa. Non è accettabile senza riserve la dichiarazione , resa in un momento in cui quel gesto costituiva un merito; certamente però il tumulto era stato predisposto dal Genoino sin dal mese di giugno e l’A. doveva esserne l’iniziatore. La plebe napoletana era esasperata dalla recente gabella imposta dal viceré sulla frutta, che costituiva il principale alimento popolare: fu deciso di sfruttare il malcontento organizzando una grossa dimostrazione contro i nobili e gli speculatori che per l’ennesima volta avevano indotto il governo spagnolo a far gravare esclusivamente sul popolo le sue necessità finanziarie. L’occasione doveva essere offerta dalla tradizionale giostra degli “Alarbi”, finta battaglia tra schiere di ragazzi armati di canne, in onore della Madonna del Carmine, la cui festa ricorreva il 16 luglio.
La rivolta fu scatenata dall’esasperazione delle classi più umili verso le gabelle imposte dai governanti sugli alimenti di necessario consumo. Il grido con cui Masaniello sollevò il popolo il 7 luglio fu: «Viva ‘o Re ‘e Spagna, mora ‘o malgoverno», secondo la consuetudine popolare tipica dell’Ancien régime di cercare nel sovrano la difesa dalle prevaricazioni dei suoi sottoposti. Dopo dieci giorni di rivolta che costrinsero gli spagnoli ad accettare le rivendicazioni popolari, a causa di un comportamento stravagante, frutto di una strategia mirata, volta a fargli appunto ‘fare pazzie’, Masaniello fu accusato ufficialmente di pazzia ed ucciso per volere del viceré, di alcuni capi popolari e di una piccola parte della plebe.
Nonostante la breve durata, la ribellione da lui guidata indebolì il secolare dominio spagnolo sulla città, aprendo la strada per la proclamazione dell’effimera e filofrancese Real Repubblica Napoletana, avvenuta cinque mesi dopo la sua morte. Questi eventi, visti in un’ottica europea, vanno comunque inquadrati all’interno della cornice della guerra dei trent’anni e la tradizionale rivalità tra Spagna e Francia, anche per il possesso della corona di Napoli.