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L’arte della seta a Napoli: fede, denaro e potere.

Grazie al contributo della Respiriamo Arte, noi del XXI Secolo siamo andati alla riscoperta di un posto sensazionale per comprendere la stratificazione storica, culturale ed economica della città di Napoli, accompagnati da una delle guide della sopracitata associazione. Il complesso, infatti è stata la casa di una delle corporazioni più innovative, ricche e potenti del regno di Napoli, tra i Secoli Bui e l’Età Moderna.

Come nasce l’attività della seta a Napoli e che connessione ha con il sito?
Diversamente da come si crede, l’attività della seta non nasce a San Leucia, nell’area casertana su interessamento della casa dei Borboni nel 700’, ma ha ogni più antiche. A metà del XI secolo gli ebrei si insediano a Napoli, arrivando a Pozzuoli, antico porto del Regno di Napoli, portando con sé un nuovo tessuto: la seta. Da Pozzuoli si spostano poi più verso il centro, in piazzetta Porta Nova, alle spalle della scalinata di San Marcellino, dove c’è ancora oggi una vita chiamata Via dei Taffettanari, prodotto serico per eccellenza, come anche Via Arte della Lana, Borgo degli Orefici, iniziando ad aprire le loro botteghe di lavorazione della seta, portando il popolo partenopeo ad appassionarsi a questo nuovo tessuto, tanto che iniziando anche loro ad aprire botteghe di lavorazione, diventando così tanti da portare alla nascita delle corporazioni delle arti e dei mestieri. Quella relativa all’arte della seta nasce nel 1477, come un vero è proprio consolato, dato che erano 3 i consoli che la amministravano, sia dal punto di vista amministrativo che giurisdizionale, infatti avevano un loro tribunale ben preciso. Questi tre consoli avevano mansioni e provenienza diversa. Doveva esserci un tessitore napoletano e due mercanti, di cui uno del Regno di Napoli, ma non per forza napoletano, e l’altro considerato straniero, nel senso che non appartenesse al Regno. Per poter fare in modo che un numero sempre maggiore si iscrivesse alla corporazione, vennero elargiti loro una serie di privilegi, di cui i principali erano rappresentati da un sussidio economico per i porporati più poveri, il seppellimento dei defunti, dato che i primi cimiteri arrivano a Napoli solo nell’Ottocento con Gioacchino Murat, e infine, l’ultimo privilegio, era rappresentato da una dote di 50 ducati date alle figliole dell’arte della seta , che altre non erano che le figlie povere degli altrettanti poveri corporati, dando loro modo di entrare, all’età di 9 anni, in un conservatorio, restandoci fino ai 15 anni. Al compimento dei loro 15 anni veniva dato loro una scelta: o restare e insegnare alle nuove figliole l’arte appresa in passato, divenendo automaticamente suore di clausura, motivo per cui all’interno della struttura dei santi Filippo e Giacomo, nei lati dell’altare, ci sono delle grate che permettevano loro i poter seguire la messa senza essere viste, o prendere marito, attraverso matrimonio combinato. Inizialmente il conservatorio non nasce dove oggi vi è situata la struttura, ma nasce in piazza mercato, in Via dei Barrettari, via che esiste ancora oggi. Dato l’aumento delle iscritte al conservatorio, gli ambienti siti a piazza mercato divennero troppo piccoli per poter contenerle tutte, costringendo la corporazione all’acquisto di due nuovi palazzi più grandi sul decumano inferiore di San Biagio ai Librai. Il primo palazzo ad essere acquistato, nel 1591, è il palazzo del principe di Caserta, Acquaviva,, mentre il secondo palazzo, acquistato nel 1601, è il palazzo Spinelli di Castrovillari.

Opera giovanile di Sammartino.

– Quando nacque invece il complesso architettonico che oggi è la chiesa?
Anche se, prima del secondo acquisto, era già presente una chiesa dedicata ai santi Filippo e Giacomo, di cui sono ancora presenti alcune testimonianze, come la scala che collegava il conservatorio alla chiesa, rivolta ad est verso Gerusalemme, dove le figliole si dirigevano per pregare verso l’altare, che ancora oggi è presente all’interno della chiesa, nel 1582-83, e dove c’è un affresco in cui si intravedono le figure di una vergine dormiente in basso, circondata dagli apostoli, lateralmente sono presenti i padri fondatori della chiesa, Papa Gregorio Magno sulla sinistra e San Gerolamo sulla destra, nella parte superiore si intravede la parte inferiore di una croce con le gambe di Gesù, a destra San Giovanni e a sinistra si intravedono delle vesti nere, di lutto, che dovevano essere della Madonna. Sulla parete a destra invece c’è la figura di San Giacomo, rappresentato durante l’evento di martirio con il bastone, che va a rappresentare quella che fu la sua morte. Originariamente questa chiesa non fu subito dedicata ai santi Filippo e Giacomo, ma era una chiesa mariana, dedicata alla vergine Maria. I due Santi subentrano in un secondo momento, perché i tintori chiesero alla corporazione di intitolare la chiesa a San Giacomo, protettore delle malattie infettive della pelle, dato che i tintori stessi erano spesso a contatto con materiali che li rendevano soggetti a questo tipo di malattie. San Filippo, invece, entra a far parte della chiesa perché i resti dei due santi furono trovati e portati lo stesso giorno da Gerusalemme alla chiesa dei Santi Apostoli a Roma e da allora sono sempre uniti e compaiono anche insieme sul calendario e vengono festeggiati insieme il 3 maggio. Una volta abbattuto il muro della vecchia chiesa, dopo l’acquisto del secondo palazzo, le figliole, scendendo le scale, hanno la possibilità di assistere alla messa attraverso una finestra a doppia grata. Una pianta del Baratta del 1628, situata all’interno della struttura, ci rende meglio l’idea di come questa era strutturata. Da come si nota nella pianta, tra i due palazzi vi era una stradina, che con l’ampliamento è stata completamente inglobata ed è possibile visitarla poiché parte della chiesa, rimasta intatta per tutta la sua lunghezza, facendo il giro della chiesa stessa.

Lato sinx altare maggiore.

Cosa può dirci del complesso sul piano storico-artistico?
Dal punto di vista storico – artistico, la chiesa è di impianto seicentesco, inaugurata nel 1641, diversamente dagli affreschi, marmi e pavimenti che sono di impianto settecentesco, poiché la corporazione vuole dare un nuovo respiro alla chiesa, chiamando, per questo e primo fra tutti, Giuseppe Sammartino, per occuparsi della facciata con i due santi a cui la chiesa è dedicata e fu chiamato proprio cinque anni dopo la realizzazione del suo Cristo Velato. Per quanto riguarda la pavimentazione, ad occuparsene furono i fratelli Massa, gli stessi che hanno realizzato la pavimentazione al Chiostro di Santa Chiara. I marmi, come la balaustra, l’altare e l’acquasantiera all’inizio della navata sono stati realizzati da Giacomo Massotti. Con il terremoto dell’80, molte chiese furono chiuse o abbandonate e lasciate alla mercé di molti saccheggiatori, motivo per cui, molte decorazioni, marmi e oggetti non sono più presenti all’interno della chiesa. Questa chiesa, diversamente da molte altre, era una chiesa “economica”, poiché gestita da corporazioni e poiché i tintori e i tessitori tendevano a stendere dei drappi di seta e chiunque vi entrava e restava colpito da un qualche tessuto, poteva commissionarlo e comprarlo per sé. All’interno della chiesa è presente una cripta, delle vere e proprie terre sante, attualmente ripulita grazie all’ associazione ” Respiriamo Arte “, poiché anch’essa, come molte chiese durante gli anni che successero al terremoto del 1980, vennero utilizzate come discariche. In queste terre sante vi venivano seppellite le figliole che decidevano di restare a vita al conservatorio e i porporati più poveri, come sancito dai privilegi avuti per essersi iscritti alla corporazione. Nella cripta veniva celebrata la messa, vi è infatti collocato un piccolo altare. All’interno della sagrestia, anch’essa settecentesca, il cui fiore all’occhiello è l’altare del 1712, tutto in legno, intarsiato d’oro, di cui si occupò il maestro intagliatore Marco Antonio Tibaldi sul disegno di Domenico Antonio Vaccaro e che prima era collocato infondo alla chiesa, dove oggi vi è l’altare del 1750. Nella sagrestia è presente, l’unica delle statue perdute della chiesa di Santa Luciella, la statua dell’Immacolata con la veste intessuta di filamenti d’oro.


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Domenico Papaccio
Domenico Papaccio
Laureato in lettere moderne presso l'Università degli studi di Napoli Federico II, parlante spagnolo e cultore di storia e arte. "Il giornalismo è il nostro oggi."